Una passione tramandatale dal padre, diventata anche un lavoro. Per la fotoreporter sarda, viaggiare in giro per il mondo ha rappresentato una seconda occasione dopo aver scoperto di essere malata di cancro. Insieme a due colleghe, meridionali come lei, ha pubblicato un libro interattivo sulla comune esperienza come inviate di guerra dal titolo Afghan West, voci dai villaggi
Elisabetta Loi, una vita per la fotografia «La rinascita in Afghanistan dopo la chemio»
Cresciuta tra macchine fotografiche a pellicola, tra il bianco e nero al colore del digitale e la passione per la fotografia tramandata dal padre, Elisabetta Loi scopre il mondo attraverso immagini, attraverso la fotografia per lei indispensabile compagna. Diventa giornalista pubblicista e inizia a lavorare per LUnione sarda e alcune agenzie nazionali e internazionali. Ha documentato diversi fatti di cronaca importanti come il sequestro di Silvia Melis, e i processi a Maria Ausilia Piroddi. Oltre la cronaca si dedica allo sport e ai reportage di viaggio in tutta la Sardegna. Nel 2009 le viene diagnosticato un tumore, ed Elisabetta decise di partire e di intraprendere un viaggio, rivolto a se stessa e non solo, un contributo a tutte le persone che hanno e che continuano a lottare. Dimostrazione di forza danimo, Elisabetta è lesempio di rinascita, dimostrando che con volontà e determinazione si può essere più forti di prima. Il suo viaggio in Afghanistan segna un periodo importante della sua vita. Elisabetta Loi, oggi fotoreporter racconta storie di vite, di popoli, culture differenti e di guerre in posti disagiati e alle volte incomprensibili.
Come vivi la fotografia e che relazione c’è tra te e la fotografia?
«È parte di me. Mio padre mi ha trasmesso l’amore e la passione per la fotografia, sono cresciuta tra le macchine, i rullini e la camera oscura. La fotografia è la mia grande passione; mi ritengo fortunata perché posso conciliare passione e lavoro».
Dalle tue esperienze in zone di guerra e conflitti, quali sono le considerazioni riguardo alla situazione afghana e il lavoro svolto dai militari della missione Isaf?
«Sono stata in Afghanistan solamente due volte, visitando la parte ovest; la mia è quindi una visione parziale. I nostri militari hanno raggiunto obiettivi importanti all’interno della missione Isaf. Hanno costruito ponti, scuole, ospedali, hanno contribuito a realizzare il terminal internazionale dell’aeroporto di Herat. Ma soprattutto stanno formando l’esercito e la polizia afghana in modo che alla conclusione della missione questo popolo sia in grado di governare autonomamente. Ho avuto la possibilità di prendere parte alle lezioni del corso per le prime donne sottufficiali, un passo importante per una nazione come l’Afghanistan».
Cosa ti ha avvicinato alla professione di fotoreporter, cosa ti ha spinto, quindi, a raccontare storie attraverso immagini in determinate parti del mondo e che approccio usare quando si viene embeddati?
«Mio padre è un reporter, è stato lui a trasmettermi la passione per questa professione. Ho lavorato al suo fianco negli anni più difficili per la Sardegna, quando i sequestri di persona, gli attentati e gli omicidi, occupavano le cronache dei quotidiani. Il ruolo di embedded è una condizione molto delicata, il buon senso è sicuramente alla base di tutto. È importante seguire tutte le indicazioni fornite dai militari che affianchiamo, perché ne va della nostra sicurezza e soprattutto della sicurezza di chi scortandoci permette di svolgere serenamente il nostro lavoro».
Quando hai deciso di andare in Afghanistan?
«Il mio interesse per questo Paese è nato nel 2009, mentre venivo sottoposta a duri cicli di chemioterapia. Nelle mie condizioni di salute non era ovviamente possibile partire per realizzare un reportage, ma nonostante ciò ho iniziato a documentarmi nella speranza che, una volta terminate le terapie, potessi realizzare il sogno di un reportage in una terra così lontana e incomprensibile. I viaggi in Afghanistan hanno rappresentato la mia rinascita dopo i cicli di chemioterapia; con i miei articoli volevo raccontare la rinascita dell’Afghanistan durante la missione Isaf. Le mie terapie si concluderanno nel 2014 proprio in concomitanza con il ritiro delle truppe dall’Afghanistan».
Qual’è il giusto stato d’animo e che consiglio puoi dare a chi vorrebbe intraprendere questa professione a rischio?
«Per svolgere questa professione ci vuole molta determinazione e passione, i ritmi sono spesso frenetici e solo chi è fortemente motivato può affrontarla con il giusto spirito. Bisogna essere curiosi, amanti del mondo e della vita, bisogna essere sereni perché spesso si è costretti a prendere delle decisioni velocemente; solo una nostra serenità interiore ci permette di vedere con lucidità e obiettività il mondo che ci circonda».
Questo è stato il tuo secondo viaggio in Afghanistan. Quest’anno accompagnata da un team tutto al femminile. Come ti sei trovata a collaborare in gruppo su un unico progetto?
«Ho conosciuto la giornalista Samantha Viva e la videoreporter Katiuscia Laneri durante il mio ultimo viaggio in Afghanistan. Ognuna di noi aveva il suo incarico professionale da portare a termine, ma al nostro rientro io ho dato l’input per poter realizzare qualcosa insieme, un nostro progetto, un racconto unico. Realizzare questa idea dopo il nostro rientro in Italia non è stato semplice anche perché vivendo in tre regioni differenti tutto si complicava. Una volta costruito il progetto, il secondo compito difficile era trovare un editore che credesse nella nostra idea. Lo abbiamo trovato in Sicilia, Salvo Bonfirraro, titolare della casa editrice Bonfirraro, che senza esitazione ha sposato la nostra idea, ha voluto scommettere su tre donne del Sud e sul loro viaggio come embedded. Ha creduto in noi e in Afghan West, voci dai villaggi».
Si tratta di un libro interattivo, composto da foto, descrizioni e video , quest’ultimo tramite codice Qr. Quale è la situazione generale dellinformazione oggi, con lavvento delle nuove tecnologie?
«Io ho iniziato questo lavoro quando ancora si scattava con pellicole in bianco e nero, e le foto si trasmettevano dalle redazioni periferiche a quella centrale attraverso la telefoto. L’avvento delle nuove tecnologie ha sicuramente dato una svolta importante alla nostra professione; ora basta avere un computer portatile e un cellulare con una connessione internet, e da qualsiasi posto e in tempo reale si possono trasmettere notizie, foto e video. Facebook, Twitter, blog permettono nuovi e più veloci modi di comunicazione; purtroppo però con la crisi dell’editoria gli editori cercano di coprire molte notizie avvalendosi di nuovi strumenti come il citizen jurnalism. In questo modo si è sempre sulla notizia ma spesso i contenuti non sono qualitativamente all’altezza di quelli prodotti dai professionisti. Così i precari continuano ad essere precari e continuano ad essere pagati pochi euro per testi e foto, mentre prende sempre più piede il giornalismo partecipativo»
C’è un episodio in cui hai avuto paura?
«Ci sono stati diversi episodi di tensione ma uno che ricordo particolarmente è legato al mio secondo viaggio. Stavamo rientrando nella base di Shindand a bordo dei mezzi blindati Lince dopo una giornata trascorsa nei villaggi, all’improvviso una motocicletta con due persone a bordo ha attraversato ed invaso la nostra corsia; a causa di una rapida sterzata il nostro Lince si è inclinato rischiando di ribaltarsi, ma grazie alla prontezza dei riflessi del militare alla guida e alla rapida controsterzata tutto si è risolto con un po’ di spavento e senza nessun graffio. I motociclisti sbucati all’improvviso ad interrompere il passaggio del nostro convoglio potevano essere scambiati per dei kamikaze, invece per fortuna erano dei semplici e maldestri motociclisti afghani».
Quale è la preparazione più adeguata, per recarsi in delle zone di conflitto? Vi sono corsi, addestramenti particolari da svolgere?
«Io sono partita in Afghanistan la prima volta senza aver svolto nessun corso, però grazie alle lunghe chiacchierate con alcuni militari conoscenti e con alcune colleghe che erano già state in aree di crisi, ho cercato di documentarmi su diversi aspetti, da quelli più banali a quelli meno scontati e difficili. Bisogna essere molto pratici ed adattarsi alle situazioni più complesse perché l’imprevisto è sempre dietro l’angolo. Nell’ottobre del 2012 sono stata ammessa al corso per giornalisti da inviare in aree di crisi organizzato dallo stato maggiore della Difesa e dalla Federazione nazionale stampa; due settimane intense fatte di lezioni di teoria ed esercitazioni impegnative in giro per l’Italia. Abbiamo subito attentati e siamo stati persino sequestrati; situazioni estreme che sono servite per capire come comportarsi ed evitare di mettere a rischio la nostra sicurezza e quella dei nostri compagni di viaggio».
Parlando di attrezzatura fotografica, cosa porti con te durante i tuoi lavori?
«Quando si parte come embedded ci sono restrizioni sui pesi dei nostri bagagli, bisogna essere molto pratici sia per i nostri indumenti personali sia per l’attrezzatura, portando quindi solo quella essenziale. Per evitare continui e rischiosi cambi di ottiche in mezzo a tempeste di sabbia, io parto sempre con due corpi macchina e due obiettivi zoom, flash, led e computer Mac ultra leggero. Il nemico principale per l’attrezzatura è la polvere, quindi è utile portare con se i kit per la pulizia del sensore e la bomboletta di aria compressa per rimuoverla ogni sera; molto utili anche le borse a tenuta stagna e i kit antipioggia. Per il viaggio è meglio portare l’attrezzatura in borse imbottite, mentre per gli spostamenti giornalieri sui Lince oppure a bordo degli elicotteri è meglio avere l’attrezzatura al collo e un piccolo marsupio in cui mettere solamente le schede, i kit antipioggia e le batterie di riserva; spesso, infatti, con le temperature rigide le batterie si scaricano velocemente, quindi bisogna averne in abbondanza».
Ti senti influenzata da qualche autore in particolare?
«Fin da adolescente ero affascinata dal mito di Robert Capa e dei fotografi dell’agenzia Magnum. L’anno scorso a Madrid ho avuto la fortuna di visitare la mostra La maleta mexicana resa possibile grazie all’esaustiva ricerca del Centro internazionale di fotografia di New York. Riguardava tre casse di negativi della Guerra Civile spagnola apparsi nel 1995; 165 rullini e quasi 4500 scatti di Robert Capa, David Seymour e Gera Taro. Cartier Bresson, Steve McCurry, Salgado e Paolo Pellegrin hanno stili diversi ma sono alcuni degli autori che prediligo».
[Foto ©M. Alpozzi]
Giusi Cosentino