La progressione di carriera negli atenei è uno dei temi più caldi del momento. Il primo turno di votazioni per il magnifico rettore di Catania è domani e MeridioNews continua a ospitare il dibattito sul futuro dell'accademia. Parla il professore Francesco Coniglione
Elezioni UniCt, una proposta alternativa di riforma «Chiamata diretta dei prof? Altro che nepotismo»
Il
primo turno delle elezioni per il nuovo rettore dell’università di Catania è fissato per domattina. E mentre qualche professore, assistito dagli avvocati, fa ricorso al Tar per chiedere la sospensione urgente del voto, c’è chi ragiona sul sistema universitario. Le dichiarazioni di alcuni dei candidati alla carica di Magnifico su reclutamento e progressione di carriera dei docenti hanno fatto storcere il naso a chi, come il ricercatore Giambattista Scirè, vede nel metodo della cooptazione (cioè la chiamata diretta) un modo per perpetuare il sistema scoperchiato dalla procura di Catania con l’inchiesta Università bandita. Ma c’è anche chi, stigmatizzando i ricatti e le prevaricazioni emersi grazie alle intercettazioni telefoniche, propone una riforma ancora diversa. È il caso del professore Francesco Coniglione, ordinario di Storia della filosofia dell’ateneo catanese, ex presidente e adesso consigliere della Società filosofica italiana e redattore del blog Roars, specializzato in tematiche legate alla ricerca accademica, tra i più seguiti a livello nazionale.
«Innanzitutto è fondamentale sgombrare il campo da una, iniziale, imprecisione: quando si parla di concorsi truccati nell’
inchiesta della procura si parla delle progressioni di carriera di chi è già all’interno del sistema accademico. Perlopiù da ricercatore di tipo A a quello di tipo B e da associato a professore ordinario», comincia Coniglione. Sta nell’assenza di questa distinzione, secondo il prof, buona parte dell’indignazione legata all’indagine della magistratura. L’inchiesta non riguarda l’arruolamento (fatto tramite dottorati, assegni di ricerca o posti da ricercatore di tipo A), bensì la seconda fase, quella delle progressioni di carriera. «La fase dell’arruolamento merita una vigilanza particolare – precisa il prof – perché quando si è ai gradini iniziali, prima dell’abilitazione, il concorso deve essere pubblico. La cosiddetta cooptazione verso gli allievi, che nulla ha a che fare con l’arbitrio o il nepotismo, deve essere socialmente garantita dalla comunità accademica».
«Va chiarito un punto – continua – all’università l’avanzamento di carriera avviene per concorso. Cosa che non avviene con
altri impieghi pubblici. Ma, nel caso dei docenti universitari, tale concorso avviene in due fasi: quella che viene fatta per abilitarsi all’insegnamento, l’Asn; quindi una valutazione locale alla quale possono concorrere tutti coloro che hanno conseguito l’abilitazione nazionale». L’Abilitazione scientifica nazionale, in altri termini, è una sorta di concorsone a numero aperto. Una commissione nazionale di cinque componenti esamina le domande di chi si presenta e, dopo un esame dei titoli e delle pubblicazioni, assegna l’abilitazione o per ordinario o per associato. Una volta conseguita, non esiste una graduatoria. Gli abilitati sono tutti sullo stesso livello.
«Se io sono associato nel mio dipartimento, mi abilito per diventare ordinario e aspetto che il mio ateneo bandisca il posto corrispondente per il mio settore scientifico disciplinare», spiega Francesco Coniglione. «
È difficile che a un concorso da associato a ordinario acceda qualcuno che viene del tutto dall’esterno del sistema universitario – continua il professore – Ogni dipartimento, nel momento in cui deve decidere quanti posti chiamare sulla base delle disposizioni del ministero, ovviamente sceglie i settori di cui ha già gli abilitati. Per permettere ai suoi docenti l’avanzamento di carriera». Ma la scelta dei posti da bandire non dovrebbe essere effettuata sulla base delle necessità del dipartimento piuttosto che sulle disponibilità che si hanno? «Questo viene già fatto. Ogni dipartimento stabilisce le proprie esigenze e le ordina secondo una scala di priorità. I concorsi interni vengono fatti guardando a chi è già abilitato perché la legge dà questa possibilità».
Il tema, dunque, è la normativa nazionale, aggiornata alla riforma dell’Istruzione varata dall’allora ministra Mariastella Gelmini. «Senza contare che a ciascuna università conviene fare progredire gli interni piuttosto che aprirsi all’esterno». Per una banale
questione di costi. «L’università paga dal proprio budget i docenti, e i soldi dipendono dal fondo di finanziamento ordinario assegnato dal ministero ogni anno. Se vince un professore interno, l’ateneo deve pagare solo la differenza contrattuale tra associato e ordinario». Differenza che, in base all’anzianità dell’associato, può anche essere vicina o uguale a zero. «Se vince un professore esterno, il costo di un ordinario è di circa 130mila euro l’anno. Dieci ordinari che vengono da fuori equivalgono a un milione e 300mila euro, praticamente l’intero budget che l’università di Catania ha a disposizione per la ricerca scientifica. Senza considerare che un professore esterno che diventa ordinario potrebbe non avere carico di lavoro sufficiente, visto che quest’ultimo è già coperto dall’associato, il quale resta in servizio».
Il punto, secondo il professore, è che la normativa va cambiata. Non con una maxi-riforma dell’università, ma con una che miri a colpire i momenti, a monte, in cui si creano le possibilità che
mettono a rischio il valore della meritocrazia. «Le intercettazioni telefoniche dimostrano che il sistema costruito dall’attuale normativa corre il rischio di essere criminogeno. E non dobbiamo commettere l’errore di credere che sia un fatto catanese: riguarda tutte le università d’Italia». Chi contesta i familismi, però, non si limita al caso Catania ma combatte il problema a livello nazionale. «Io propongo di risolvere questo punto tramite la legge: si devono obbligare gli atenei ad assumere una percentuale fissa di persone che non sono state inquadrate nell’ateneo, cioè sono esterne al sistema universitario. Attualmente la norma prevede il 20 per cento di posti riservati all’esterno, ma si riferisce a chi già insegna altrove». Alcuni di questi casi sono finiti nei faldoni della procura di piazza Verga. «Io invece dico: bisogna mettere una percentuale che garantisca l’ingresso a chi non è all’interno del sistema universitario, cioè non è né assegnista né ricercatore né associato… Purché sia abilitato».
Proprio per questo, secondo Coniglione, ciò che è davvero importante è riformare e correggere alcuni meccanismi del processo per l’ottenimento dell’Abilitazione scientifica nazionale. «Una volta che uno ha l’abilitazione, lasciamo le università libere di scegliere – sostiene –
Il concorso è già stato fatto, perché bisogna farne un altro? Il ministero, però, deve impegnarsi a dare il budget per i docenti esterni di cui parlavo prima, vincolandolo ai professori anziché alle università». Per fare un esempio pratico: se un professore di Filosofia teoretica vuole spostarsi all’università di Milano, ci deve essere un suo omologo dell’università di Milano che si trasferisca a Catania. Altrimenti il budget del professore catanese resta nel capoluogo etneo, e quello lombardo dovrebbe trovarne un altro uguale. «Se si modifica questo piccolo aspetto, i trasferimenti possono avvenire con i semplici nulla osta dei due atenei, quello di provenienza e di accettazione. Senza la necessità di fare un concorso ad hoc».
L’università, secondo Coniglione, deve rispondere a
due esigenze ugualmente importanti: «Quella della scuola, della formazione delle competenze, come in una bottega artigiana, che avviene a stretto contatto con chi già le possiede; e quella del rinnovamento, per evitare che tutto avvenga all’interno delle scuole. Altrimenti, incrociandosi sempre tra simili, il rischio è la sterilità creativa». Per evitarla, ancora una volta basterebbe attingere all’elenco nazionale di coloro che hanno ottenuto l’abilitazione Asn. «Dopo avere riformato anche questa, ovviamente. Faccio un esempio pratico: attualmente, per le abilitazioni da associato e ordinario si possono presentare le stesse pubblicazioni. Basterebbe stabilire una cosa ovvia, cioè che se si vuole fare l’ordinario bisogna presentare solo le pubblicazioni ottenute dopo l’abilitazione ad associato. Mi sembra una cosa scontata, eppure non è legge. E questo è solo un esempio: rendere più seria l’Asn, permette ai dipartimenti di chiamare chi vogliono. Perché non sarà più possibile fare senatore il mio cavallo».
«Benvenuta l’inchiesta di Catania, ma guardandola da una prospettiva più ampia: l’indagine della procura deve aprire un varco nel sistema e ci deve permettere di modificare quello che non va.
Perché altrimenti, domani, sarà un’altra università a finire nel caos». E poi un’altra ancora e un’altra ancora. «Il modello Usa, di cui tanto si parla, qui sarebbe assolutamente impensabile. Lì sì che viene fatta la profilazione, con tanto di lettere di raccomandazione! Profilazione che invece, per inciso, in Italia è illegale da diversi anni: non è quindi possibile fare, come spesso si dice, i concorsi in cui viene fotografato il vincitore. I criteri inseriti nei concorsi sono più che generici, le storture sono nelle persone e non nei bandi. Io dico che ci deve essere un momento pubblico, come l’Asn o un altro, di validazione scientifica. Il sistema universitario non va buttato all’aria, basta fare delle riforme chirurgiche, piccole, ma efficaci».