E’ ancora evitabile il fallimento della Regione siciliana? Con un ‘buco’ di 3 miliardi di euro le soluzioni non sono molte

da Franco Piro
riceviamo e volentieri pubblichiamo

Il bilancio della Regione, così come è apparso chiaro negli ultimi giorni, presenta ormai un deficit strutturale di oltre tre miliardi di euro. I tagli operati dal governo nazionale alle risorse spettanti alla Regione hanno infatti reso vani gli sforzi di riduzione delle spese che sono stati fatti negli ultimi anni.

Il livello del deficit è tale da essere irrimediabile con interventi di emergenza o anche con alcuni aiuti – ammesso che li diano – da parte del governo nazionale.

E’ necessario acquisire dunque la consapevolezza che soltanto un vigoroso piano straordinario può provare a rimettere in sesto le finanze regionali. Straordinario ma non formulato con l’ottica dell’emergenza, quanto con l’ottica delle drastiche riforme strutturali.

Sicuramente va affrontato il nodo dell’efficienza della ‘macchina’ regionale, ormai collassata e demotivata, iniziando con l’assegnare i compiti di gestione agli enti locali e trovando soluzioni coraggiose per l’enorme ed informe massa di stipendiati e sussidiati regionali.

Allo stesso tempo vanno tagliati i grumi che costringono la spesa entro canali di clientelismo e parassitismo, cominciando con il diboscare la selva oscura delle partecipate. Va approntato, allo stesso tempo, un rigoroso piano di risanamento finanziario che, è questo il punto, non può fare a meno della attuazione del federalismo fiscale in Sicilia a cominciare dall’applicazione dei costi standard e delle centrali uniche di spesa, nella Regione, negli enti locali e nelle Aziende sanitarie.

Un robusto pacchetto di riforme incisive, una nuova compagine politica e di governo autorevole insieme ad un piano poliennale di rientro dal deficit sono le carte con cui presentarsi al tavolo di confronto con il governo nazionale il cui sostegno, a questo punto, sarebbe inserito in una strategia che punta ad un radicale cambiamento.

Col governo nazionale la parte centrale della discussione dovrebbe vertere sulla piena attuazione dello Statuto speciale. In un precedente articolo del 21 agosto  (che potete leggere qui e in allegato) abbiamo parlato della recente sentenza della Corte Costituzionale che ha apertamente riconosciuto il diritto della Regione siciliana di riscuotere tutte le entrate legate alla sua capacità fiscale e non soltanto quelle riscosse effettivamente sul suo territorio come avviene tuttora.

La differenza è enorme. Da sempre la Regione rivendica tali entrate, che hanno fatto oggetto di attenti studi e rilevazioni di dati. Per fare un esempio, applicando il criterio fissato a luglio dalla Corte Costituzionale, alla Sicilia spetterebbero le ritenute Irpef operate dallo Stato e dagli altri Enti pubblici statali pari a circa 2,5 miliardi di euro all’anno. Allo stesso modo la Regione dovrebbe riscuotere gli interessi pagati da banche e poste per circa 220 milioni, l’imposta sulle assicurazioni per circa 104 milioni e l’ulteriore quota di Irpeg ed Ires pari a 218 milioni di euro.

Non è finita, perché entrerebbe nel novero delle entrate da riscuotere anche l’Iva all’importazione, che vale più di 3,5 miliardi l’anno, nonché l’Iva commisurata ai consumi delle famiglie siciliane, ma versata altrove, pari a circa 4,9 miliardi.

Come è noto, tuttavia, lo sciagurato accordo sottoscritto a giugno dal governo Crocetta impedisce alla Sicilia (e fino al 2017!) di attivarsi per vedersi riconosciuto dal governo nazionale quanto sancito dalla sentenza della Corte Costituzionale.

Notevole forza avrebbe, invece, un ragionamento che puntasse all’apertura di un confronto generale in cui il governo della Regione, in cambio di quanto spetta alla Regione, si dichiarasse disponibile al recepimento (per altro dovuto) dei principi del federalismo fiscale, ed all’accollo di quelle funzioni pur previste dallo Statuto, ma che finora sono rimaste di competenza dello stato.

Ci riferiamo, in particolare, alla pubblica istruzione, che costa circa 4,9 miliardi di euro l’anno, all’istruzione universitaria che costa 730 milioni, alle politiche assistenziali per 230 milioni.

Discorso a parte andrebbe fatto per il finanziamento degli enti locali e per la sanità. Per quest’ultima, in particolare, andrebbe posta sul tappeto la questione dell’accollo totale degli oneri da parte della Regione, finanziato tuttavia con una corrispondente quota delle accise sui prodotti petroliferi che, per il 40% del totale italiano, vengono lavorati in Sicilia ed il cui gettito in termini di accise potrebbe benissimo compensare i circa 2,5 miliardi di contributo che lo Stato versa ogni anno alla Sicilia per finanziare in parte il fondo sanitario.

Se è vero che a mente del secondo comma dell’articolo 36 dello Statuto le imposte di produzione spettano allo Stato, non va dimenticato che il meccanismo della retrocessione delle accise per finanziare la sanità in Sicilia è richiamato dalla legge finanziaria dello Stato per il 2007 e, più in generale, è la stessa legge sul federalismo fiscale che prevede la possibilità della retrocessione delle accise alle regioni.

Sono certo che a molti queste ipotesi sembreranno almeno irrealistiche e/o irrealizzabili, al peggio verranno classificate come fumose fantasticherie, subito da accantonare.

A costoro, allora, l’onere di dimostrare che esiste un’altra praticabile via per salvare l’Autonomia speciale ed evitare il fallimento della Regione siciliana.

 Articoli 36 e 37 dello Statuto siciliano: qualcosa sta cambiando?
Statuto, anche la la Corte Costituzionale ‘beffata’ dall’accordo capestro Crocetta-Renzi


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