Degli anni ’80, del disimpegno e della televisione

Quando uno scrittore racconta il suo mestiere, senza retorica o giri di parole, può suscitare un effetto straniante. Se, poi, il libro che lo scrittore presenta parla degli anni ’80, dell’eroina, della paura dell’AIDS e del fatto che, dopo Chernobyl, la gente correva al supermercato per comprare giganteschi pacchi di pasta, smetteva di mangiare insalata e di bere latte che non fosse a lunga conservazione, la sensazione che ci sia qualcosa di diverso si acuisce.

In un contesto quasi intimo, si è parlato, alla libreria Tertulia, dell’ultimo romanzo di Nicola Lagioia, “Riportando tutto a casa”, edito da Einaudi.

«Questo libro è un affresco della Bari anni ’80», ha cominciato Biagio Guerrera, scrittore e poeta catanese, che ha dialogato con Sal Costa, romanziere autoctono pure lui, e con lo stesso Lagioia.

«E’ un romanzo iperbolico sapientemente tenuto a bada», spiega Costa. «“Riportando tutto a casa” ha un gran ritmo che tiene sempre il lettore avvinto. Merito del linguaggio e della punteggiatura. Sono totalmente assenti, per esempio, le virgole d’elencazione, e questo sottolinea la rapidità dei passaggi narrativi», sostiene. Si rivolge, quindi, direttamente all’autore: «Sei uno scrittore giovane, del ’73: come hai fatto a ricostruire così chiaramente tutti gli avvenimenti degli anni Ottanta? Come li hai penetrati?».

«Ero un ragazzino, ma i ragazzini hanno la capacità di assorbire tutto», risponde Lagioia, ricordando che anche il contesto in cui si vive dà la maturità per capire certi elementi ed analizzarli con coscienza: «Bari, in quel periodo, era una matrioska, era una città atipica rispetto al meridione. La chiamavano la Milano del sud. Bastava spostarsi un po’ dal centro, e s’incontrava la Bari alternativa, che pullulava di band post-punk. Si procedeva ancora verso la periferia e s’incontrava Japigia, una Scampia ante litteram, una sorta di Zen in versione pugliese. E’ lì che i miei personaggi oltrepassano la loro personale linea d’ombra e maturano».

L’Italia diventa un paese da raccontare «perché è fantascientifica, in totale sfacelo», della quale può risultare interessante fotografare alcune realtà, per fermare delle immagini e ricordarle, “riportarle a casa”, per citare il titolo del romanzo.

E’ con quest’idea che l’io narrante ritorna alla Bari degli arricchiti, a quella prima di Tangentopoli: «I miei tre personaggi sono accomunati dal rapporto che i loro genitori hanno con un denaro che, piovuto all’improvviso, in maniera più o meno lecita, non sanno come gestire. Uno ha le spalle coperte, è figlio di un principe del foro e si permette la cattiveria gratuita, sapendo che riuscirà a cavarsela. Gli altri due, invece, non hanno la più pallida idea di come usare i loro soldi e cedono all’apoteosi del kitch».

Il decennio cominciato nel 1980, secondo lo scrittore, è stato un «trauma senza evento». I giovani i cui genitori hanno vissuto la rivoluzione sessuale del ’68 sono cresciuti con la paura dell’HIV, e sono gli stessi che non hanno visto l’omicidio Moro e si sono dedicati quasi totalmente al disimpegno politico. Inoltre, lo shock della televisione commerciale, una rivoluzione «che ha causato la prima telecrazia compiuta della storia, quella in cui ancora adesso viviamo».

«Ma è forse una delle prime volte che, in un libro italiano, viene citata la televisione con così tanta chiarezza», commenta Guerrera, perché, aggiunge un ragazzo dal pubblico, «è come se ci fosse un po’ di pudore nello scrivere “c’era Emilio Fede al tg”».

«La televisione è un fenomeno quasi nuovo», ironizza Lagioia. «Se uno legge un romanzo di Dacia Maraini è come se fosse stato scritto cinquant’anni fa e che non sia esistito, chessò, l’abusivismo edilizio».

Sul rapporto tra tubo catodico e letteratura interviene il prof. Tino Vittorio, tra gli ascoltatori: «Negli anni ’70, Bari era quasi la capitale intellettuale d’Italia, con importanti case editrici, ad esempio la Laterza. Quegli uomini di cultura non hanno niente a che vedere con la televisione eppure, in “Riportando tutto a casa”, non vengono neanche citati».

«Molti di loro», sottolinea Lagioia, «sono nati senza tv, ma poi ne sono diventati i gestori. Facciamo degli esempi? Giuliano Ferrara, Silvio Berlusconi. Gli altri, quelli che hanno continuato ad ignorare la televisione, li ho ignorati a mia volta: sono vissuto in un’epoca a-ideologica, gli intellettuali del passato li ho cercati ben poco. E pochissimo loro hanno cercato me. Lo scarto generazionale, molto probabilmente, risiede nel fatto che mio padre ha ricevuto un testimone dal suo, ha avuto un futuro. A me un testimone non l’ha passato nessuno».

E l’Italia la staffetta l’ha persa.


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