Laith Mushtaq, giornalista di Al Jazeera, racconta ai Benedettini cosa contraddistingue lo stile informativo della sua emittente e di Al Jazeera talk. Un incontro sulla guerra e sulla pace, sul lavoro dei giornalisti e sul faticoso compito di cercare la verità- La rivoluzione di Al Jazeera
Contro la guerra con qualunque mezzo
“Scegliere la strada dell’odio o andare contro la guerra con qualsiasi mezzo”. È questo il bivio davanti al quale si è trovato Laith Mustaq, iracheno – oggi cameraman e giornalista di Al Jazeera – quando, diversi anni fa, la guerra è entrata nella sua esistenza. Sotto le bombe sganciate dagli americani sul suo Paese, Laith ha infatti perduto una sorella. “L’odio – riflette – avrebbe ferito più me che gli altri. Per questo decisi di andare contro la guerra, partendo dalla mia esperienza di soldato in grado di utilizzare la macchina da presa”. Così oggi Laith va in giro per il mondo a parlare di pace e a raccontare le guerre con lo stile – rivoluzionario – di Al Jazeera. Ed è proprio alla rivoluzione di Al Jazeera che è stato dedicato l’incontro tenutosi mercoledì al monastero dei Benedettini, organizzato da Step1 in collaborazione con la Facoltà di Lingue, al quale hanno partecipato anche Antonio Pioletti, docente di filologia romanza, Fabio Chisari, docente di Storia sociale dei media, e Laura Silvia Battaglia, giornalista del quotidiano Avvenire e freelance che, in più di una occasione, si è recata nei teatri di guerra, per raccontare ciò che accade senza accontentarsi delle “verità” ufficiali degli Stati maggiori.
L’incontro – organizzato da Step1 e dalla Facoltà di Lingue – si è aperto con la proiezione della videointervista a Laith Mustaq realizzata da Salvo Catalano. Antonio Pioletti ha poi ricordato la figura del reporter, scrittore e attivista italiano Vittorio Arrigoni, sottolineando l’importanza di un incontro come questo all’Università: “compito delle facoltà è entrare nel merito, nelle contraddizioni e nei conflitti che riguardano il presente. bisogna chiedersi cosa sta avvenendo attorno al Mediterraneo e fare parlare i fatti”. Sulla ricerca della verità, soprattutto in guerra, si è incentrato l’intervento di Laura Silvia Battaglia, che descrive il mestiere del giornalista come una continua attività di ricerca. “Quello che succede in Afganistan, da questo punto di vista, non è molto diverso da quello che succede a Catania. Il giornalismo non è una scienza complicata. Può derivare dall’osservazione, dal camminare per le strade. E già sulla strada c’è una forma di guerra. Il mio primo impatto con la morte e la violenza – racconta Silvia, che è catanese – l’ho avuto quando frequentavo il liceo Spedalieri e uccisero un pregiudicato a pochi metri da me”.
In zone di guerra tutto ruota intorno alla scelta delle fonti. Gli inviati, che spesso svolgono il loro mestiere in forma embedded (protetti dai militari), devono saper distinguere la verità da ciò che viene loro mostrato, saper leggere fra le righe. “E’ chiaro che la ricerca della verità diventa sempre più complicata”. E spesso le stesse parole usata per parlare delle guerre nascondono degli inganni . “Si parla spesso di missioni umanitarie, in realtà gli aspetti umanitari sono una parte delle missioni militari, fatte per attrarre a sé la popolazione ed avere delle informazioni necessarie per conquistare il territorio pezzo per pezzo”.
È stato poi Fabio Chisari ad introdurre il discorso su Al Jazeera, che “è uno dei cinque marchi nel campo dell’informazione più conosciuti al mondo. In meno di dieci anni di attività, dal 1996 al 2005, Al Jazeera è arrivata ad essere considerata alla stregua della CNN, BBC, e CBS. Il motivo di tanta diffusione a livello internazionale sta nel suo essere un mezzo di comunicazione scomodo”. Il mondo occidentale, in passato, ha spesso descritto Al Jazeera come un canale che dava voce al terrorismo. Ma la realtà è diversa. La linea editoriale della televisione prevede sempre il confronto di più opinioni. L’indipendenza dell’emittente araba è così divenuta una caratteristica scomoda non solo per l’occidente, ma per lo stesso mondo arabo. La ricerca di una verità fattuale, che si cerca sempre di avvicinare ma non si pretende mai di possedere, fa di Al Jazeera “un arbitro che scontenta tutti”.
Da cinque anni esiste poi Al Jazeera talk. È una realtà innovativa, che utilizza smartphone o cellulari dotati di applicazioni video per far circolare le informazioni, a volte anche aggirando il blocco di Internet deciso dai governi, e che ha avuto un ruolo fondamentale nel dar voce ai movimenti popolari in Paesi come la Tunisia o l’Egitto. “Protagonisti sono giovani redattori che grazie a training gratuiti, da 140 sono diventati 300” spiega Laith Mushtaq. L’idea è sempre quella di raccontare ciò che accade. Poco importa se “usando la macchina da presa o qualsiasi altro mezzo”, perché non servono “distinzioni tra new media e informazione vecchio stile”. In questo senso, “quelle del nord Africa non sono state solo rivoluzioni politiche, ma anche rivoluzioni del giornalismo”. Laith Mushtaq ha scoperto la potenza delle nuove tecnologie in Ciad, quando ha assistito a una esplosione senza aver dietro la sua telecamera professionale. E si è reso conto di quanto un semplice cellulare potesse essere importante per raccontare ciò che sta accadendo.
Le rivoluzioni del nord Africa, comunque sono state importanti anche per fissare una diversa immagine di Al Jazeera. Il governo americano, che in passato accusava l’emittente di dare voce al terrorismo, le ha riconosciuto oggi, con Hillary Clinton, il merito di dare informazioni attendibili. “Obama ha un atteggiamento molto più saggio nei confronti di Al Jazeera rispetto al suo predecessore,- commenta Laith – riconoscendo ad Al Jazeera un normale ruolo di guida nel campo dell’informazione”. Ad essere diffidenti nei confronti della tv araba non sono però solo i paesi occidentali, ma anche paesi come l’India, che non ha permesso alla televisione di trasmettere sul suo territorio in inglese. Ma oggi Al Jazeera sta attrezzandosi per trasmettere, tra l’altro, in lingua turca e spagnola. “Non siamo noi che siamo cambiati – commenta ancora Laith – ma è cambiato il modo in cui altri ci guardano”. E anche un incontro come quello di mercoledì, seguito attentamente da un centinaio di persone, è stato un modo per conoscersi meglio. E per capire che dal modello Al Jazeera c’è sicuramente molto da imparare.