Sono diversi i penitenziari in cui nei giorni scorsi molti detenuti hanno inscenato violente proteste. A MeridioNews parla un agente intervenuto a sedare la sommossa a Cavadonna e il presidente dell'associazione per i diritti nel sistema penale
Coronavirus, il punto dopo le rivolte nelle carceri Antigone: «Strutture non pronte a gestire contagi»
Ucciardone, Pagliarelli, Cavadonna, Cerulli, Augusta. Sono i penitenziari in cui nei giorni scorsi sono andate in scena proteste, in alcuni casi anche particolarmente violente, dopo la stretta dell’amministrazione sui colloqui. Misure prese per contrastare l’epidemia di coronavirus, su cui ieri l’Organizzazione mondiale della sanità si è espressa definendola pandemia, ma che hanno contribuito a innalzare l’attenzione all’interno delle carceri di tutta Italia. Con conseguenze anche gravi, come a Modena e Rieti, dove sono morte in tutto 12 detenuti. A Foggia invece sono scappati in 16, ancora latitanti. Fatti che hanno visto in prima linea la polizia penitenziaria ma che hanno portato diverse associazioni a prendere posizione.
«Sono stati e continuano a essere giorni duri. Per chi non vive la realtà carceraria è difficile capirlo», racconta a MeridioNews un agente penitenziario. L’uomo è tra quelli che, lunedì sera, è stato richiamato in nottata per spostarsi di provincia in seguito alla rivolta scoppiata nel carcere di Siracusa, dove è stato necessario l’intervento straordinario di centinaia di agenti in supporto al personale penitenziario. Decine di persone hanno danneggiato un intero reparto e causato centinaia di migliaia di euro di danni. «La sommossa è partita dai detenuti comuni e questo è accaduto un po’ dappertutto. I motivi? Non sta a me individuarli, posso dire che su questo tema c’è parecchia strumentalizzazione».
Per chi dentro alle carceri trascorre, per lavoro, buona parte della giornata la decisione di limitare i contatti con l’esterno risponde all’esigenza di tutelare agenti e detenuti. «A rischiare siamo tutti, la rinuncia è necessaria. Nei penitenziari ogni giorno entrano tantissime persone», aggiunge l’agente al nostro giornale.
Riflessione inevitabilmente di segno diverso arrivano dal mondo associativo. A partire da Antigone, da sempre attenta alle condizioni di vita nelle carceri. «Siamo grati al lavoro dei direttori e del personale di polizia penitenziaria che in questi giorni hanno contribuito, insieme a molti detenuti, a fare rientrare le proteste – dichiara il presidente regionale di Antigone Pino Apprendi a MeridioNews -. Ma vogliamo sottolineare che proprio i direttori non sono nella condizioni di affrontare eventuali emergenze legate ai contagi, e proprio per questo non si può sorvolare sulla tensione che si è registrata negli istituti di sicurezza».
Apprendi focalizza l’attenzione su ciò che potrebbe accadere nel caso in cui venisse ufficializzato un caso positivo all’interno di una cella. «La stragrande maggioranza delle carceri non è attrezzata per creare efficaci misure di isolamento. Senza contare – va avanti il presidente di Antigone Sicilia – che il detenuto infetto andrebbe trattato con misure precauzionali che dovrebbero coinvolgere gli stessi agenti. Per questo ci chiediamo come si stia muovendo il ministro Bonafede». Problema che non si può risolvere con le mascherine monouso. «Si parla di centomila pezzi per tutta Italia. Fosse così, basterebbero appena per qualche giorno».
Per quanto riguarda i disagi dettati dallo stop ai colloqui per Apprendi la situazione poteva essere gestita meglio: «Andava spiegato tutto meglio e predisporre per tempo soluzioni alternative. Da Skype alla possibilità di fare più telefonate, magari quotidiane, alle famiglie». Ultima riflessione sulla richiesta di misure alternative alla carcerazione. «Si tratta di un tema delicato, ma alcune soluzioni possono essere trovate. Per esempio a Palermo – conclude – si va verso i domiciliari per i detenuti in semilibertà. D’altra parte, il rientro in carcere la sera comporterebbe il rischio di portare dentro il virus. E non è una cosa che ci si può permettere».