Farebbe felice il viceministro Martone perché non ha ancora 28 anni ed è già laureato. Della dichiarazione del ministro Cancellieri sui giovani che vogliono trovare lavoro vicino a mamma e papà pensa invece «che sia folle e di una cattiveria inaspettata». Il 13 febbraio lo vedrete sullo schermo del cinema King a denunciare le storture del sistema universitario. Nella vita fa lo stesso e intanto viaggia per gli ospedali d'Europa, sognando un futuro nella ricerca. Ma alla fine torna sempre a Catania
Andare o restare? La storia di Edoardo «Parto per tornare, è una battaglia di civiltà»
Una laurea in medicina, un futuro sognato da ricercatore in neurologia, brevi boccate d’aria all’estero ma testa e cuore sempre a Catania. Nonostante ministri e viceministri. Edoardo Cicero ha 25 anni, si è laureato a ottobre alla facoltà di Medicina etnea e adesso attende gli esami di abilitazione. Intanto ha fatto la parte di se stesso in Il pezzo di carta, il cortometraggio del catanese Marco Pirrello che verrà proiettato il 13 febbraio al cinema King insieme al documentario Italy: love it or leave it. «Ci tengo a far sapere che io non stavo recitando spiega manifestavo davvero». Megafono alla mano, denuncia storture e mancanze del sistema universitario cittadino e nazionale. Le stesse che scoraggiano il protagonista, prossimo alla laurea, e dividono il suo destino da quello di un amico, in cerca di fortuna a Milano. Edoardo invece è rimasto, ma senza arrendersi. «Sono arrabbiatissimo con il ministero comincia la nostra chiacchierata Perché mi ha spostato di una settimana l’esame di abilitazione». Quintali di concentrazione sepolti dalla neve che ha colto l’Italia impreparata. «Pare che a Roma non si riesca nemmeno a raggiungere le facoltà e così slitta tutto».
Ecco, a proposito di ministeri e ministri. Dopo gli sfigati di Martone sono arrivati «i giovani che vogliono lavorare vicino a mamma e papà» della Cancellieri. Tu che ne pensi?
«E’ una cosa folle. Di una superficialità e una cattiveria che non mi aspettavo da un ministro. La realtà è ben più complessa. Tra i reparti degli ospedali vedo tanti pazienti abbandonati dallo Stato, privi di assistenza. Se non avessero le famiglie vicine, per loro sarebbe un dramma. In casi come questi restare è una scelta obbligata, per sopperire alle mancanze di un sistema. Che rabbia sentire la Cancellieri parlare così di queste persone».
Tu 28 anni ancora non li hai e ti sei già laureato. Per il viceministro, quindi, sei uno figo. Di cosa trattava la tua tesi?
«Diagnostica differenziale del Parkinson e delle sue varianti più aggressive. Detto in modo semplice, per questa malattia esistono solo diagnosi cliniche, nessuna analisi di laboratorio che consenta di approfondire la tipologia o lo stadio della patologia per effettuare una terapia efficace e mirata. Nel mio studio invece riprendo le teorie di un esperto internazionale e tento di dimostrare come sia possibile agire in modo diverso. Ma quello contenuto nella tesi è solo una piccola parte di un anno di lavoro».
E il resto?
«Ho lavorato su 175 pazienti, un campione abbastanza rilevante. La gran parte dei dati devo ancora analizzarli e organizzarli per scrivere un articolo che spero verrà pubblicato all’estero. Ci sto ancora lavorando».
Abilitazione e neve permettendo, intanto, hai già scelto come vuoi continuare la tua carriera in medicina?
«Dopo l’esame, si aspettano i bandi di concorso per le specialistiche. Io sono interessato alla neurologia, alla ricerca. La mia segreta speranza è quella di contribuire un giorno a trovare la cura per le malattie neurodegenerative. Come l’alzheimer, per intenderci».
E tutto questo l’hai fatto e sognato a Catania. Come mai?
«Per comodità. E forse anche per vigliaccheria, non lo nascondo. Perché è stato più comodo continuare dove sono nato e cresciuto e perché, fatti i miei conti, i punteggi da superare ai test d’ingresso mi consentivano di stare abbastanza sereno rispetto a quelli necessari in altre città d’Italia. E poi ho anche provato ad andare fuori ma ho scoperto che non cambiava molto».
Una fuga alla Leopardi. Dove sei stato?
«Tra il mio terzo e il quarto anno mi sono trasferito a Roma, all’università Tor Vergata. Ci sono stato solo due settimane ma mi sono bastate per capire che la situazione era uguale alla nostra, a Catania. I ragazzi si lamentavano delle stesse cose, come i tirocini programmati e mai fatti. Forse loro stanno messi un po’ meglio dal punto di vista delle infrastrutture, ma i problemi sono gli stessi».
Perché allora, secondo te, si fa un gran parlare dell’andare o restare?
«Perché è vero che i problemi sono gli stessi, ma qui sono anche aggravati da una disastrosa situazione precedente. L’immobilismo catanese è una condizione che ci trasciniamo dietro da tanto. Qui, a differenza di altrove, c’è una classe di docenti, quelli che si sono formati durante le contestazioni studentesche, che una volta ottenuto il posto ha iniziato a gestire il potere esattamente come quelli che combatteva da giovani. A questo aggiungiamo la mancanza di investimenti unita allo spreco di risorse e otteniamo questo risultato finale. All’estero, ad esempio, è tutto diverso».
Quindi all’estero ci sei stato. E’ andata meglio che a Roma?
Ho fatto due tirocini estivi di un mese negli ospedali di Turku, in Finlandia, e a Bilbao, nei Paesi Baschi. In Finlandia, per tornare alla Cancellieri, i ragazzi riescono ad essere indipendenti anche vivendo nella stessa città dei genitori perché ogni studente ha diritto ad un assegno mensile di 400 euro. Considerato che l’affitto di un appartamento va dai 250, 300 euro, con un lavoretto o l’aiuto della famiglia te la cavi. A Bilbao, che ha uno dei sistemi sanitari migliori d’Europa, ho imparato invece come i docenti siano meno gelosi dei nostri e più disposti ad insegnare una loro tecnica in sala operatoria. Il motivo secondo me è abbastanza curioso. In queste occasioni si parla sempre in inglese, una lingua che non ha la terza persona. Questo abbatte qualunque distanza anche tra docente e allievo.
Nel cortometraggio ti si sente denunciare proprio la mancanza di dialogo all’interno dell’università e la condizione di studente come lotta per la sopravvivenza. Che intendi?
Tra noi e i professori c’è sempre una cattedra. Non si sperimentano mai formule di apprendimento diverse dalla lezione frontale, magari più creative. L’università ti lascia solo. E’ difficile reperire informazioni, incontrare i professori, avere un rapporto con loro al di fuori delle lezioni e degli esami. Non si crea nessuna comunità.
Ricapitolando: a Bilbao la sanità è migliore, in Finlandia ti pagano per studiare, a Roma i professori sono meno parrucconi. Dopo l’abilitazione intendi restare o andare?
Se potessi me ne andrei. Ma solo per imparare e poi tornare. L’obiettivo dev’essere restare perché, se lasciamo quella che a Catania è anche una battaglia di civiltà, ci dichiariamo sconfitti in partenza. E perché sappiamo che, se non lo facciamo noi, non lo farà nessuno. Oppure lo faranno quelli che non vorremmo e che hanno già contribuito allo sfacelo.