Da Ricciardi a Ricetta, sfilano a Caltanissetta i funzionari che lavorarono fianco a fianco coi poliziotti oggi a processo con l'accusa di aver manipolato il finto pentito Scarantino. E nessuno ricorda né contrasti né episodi anomali. «Stessi ideali di giustizia e legalità»
Via D’Amelio e quegli agenti del gruppo Falcone-Borsellino «Come si indottrina chi non sa manco parlare in italiano?»
«Dubitavo di Vincenzo Scarantino, ne parlai con La Barbera e con la dottoressa Boccassini, cosa avrei dovuto fare di più?». Vincenzo Ricciardi lo ha detto in passato e lo ha ribadito oggi, al processo che si celebra a Caltanissetta sul depistaggio delle indagini per la strage di via D’Amelio, che vede imputati gli ex funzionari del gruppo Falcone-Borsellino Mario Bo, Matteo Ribaudo e Fabrizio Mattei, accusati di calunnia aggravata. Ricciardi, ex questore di Bergamo, è stato anche lui parte integrante di quel pool investigativo nato per indagare sulle stragi del ’92, pur non avendo avuto in precedenza alcuna esperienza in fatto di indagini sulla mafia. Come, del resto, non ne aveva avute neppure lo stesso Arnaldo La Barbera, chiamato a dirigerlo quel pool.
«La Barbera era la massima autorità in materia per quanto riguarda la polizia di Stato e il gruppo Falcone-Borsellino. Qualsiasi cosa si fosse fatta, si riferiva a lui – racconta -. Aveva rapporti con la magistratura, credo proprio di sì, anche dopo che è andato via, sovrintendeva lui all’attività». Di molti momenti salienti di quelle indagini a cui partecipò anche lui, però, Ricciardi oggi ricorda molto poco. «Onestamente, sforzandomi, non ricordo né il ’95 quando Scarantino ha ritrattato con un giornalista, né il ’98 quando ha accusato i poliziotti – spiega -. Forse ne avrò parlato con qualche collega, ma io poi ho perso ogni contatto andando via dalla squadra mobile. Dal gennaio ’95 non ho più fatto parte del gruppo Falcone-Borsellino».
«Io ho resettato tutto – torna a dire -, quando sono andato via per me era finita». Dopo Palermo Ricciardi prende servizio a Bergamo e poco dopo va a Milano. «Io ero destinato a dirigere la mobile di Milano nel dicembre ’94, ero stato appoggiato al commissariato – racconta con un velo di rammarico -, per un funzionario di polizia è il massimo delle aspirazioni. E poi a fine maggio mi sono trovato a Palermo». Gli accertamenti investigativi che è chiamato a svolgere sono direttamente condizionati dalle dichiarazioni rese, di volta in volta, da Vincenzo Scarantino. E dei dubbi che nutriva per le cose raccontate dal finto pentito non ne ha mai fatto mistero: «Faceva dichiarazioni ondivaghe, non credo siano state verbalizzate, che cosa si doveva verbalizzare? Che uno quando parla di un soggetto usa nove volte su dieci l’espressione corna rura, cosa c’era da verbalizzare? Non mi ricordo di quali persone stiamo parlando, figuriamoci i fatti, era un insieme di cose, era una persona pesante».
Dubbi che esterna prima col dirigente La Barbera, e poi con la pm Boccassini: «Me lo ricordo come fosse adesso, era ottobre ’94, eravamo negli uffici della Criminalpol di Palermo, a un certo punto rimanemmo soli io e lei e mi chiese cosa ne pensassi, proprio a me che ero l’ultimo arrivato, sapevo che La Barbera alla gerarchia ci teneva. “C’è qualcosa che non mi convince“, spiegai. Ma lei non mi disse niente. Lui dava versioni differenti, ricordo che in un interrogatroio del settembre ’94 rimangiò tutto quello che aveva detto solo il mese prima, rinnegava quello che aveva detto sulla consegna della macchina usata per la strage. Ma poi – osserva – ci mettiamo a indottrinare una persona sull’apertura di una saracinesca? Se non avesse fatto tutti quei teatrini, alzandosi dalla sedia, facendoci vedere come l’aveva aperta…se avesse solo parlato e raccontato, nessuno avrebbe detto mezza parola, risultò strano a me perché ricordavo che quel cancello scorrevole si apriva in maniera diversa. Come si fa a indottrinare una persona come Scarantino nel 1994? Quello manco sapeva parlare in italiano, una persona che non recepisce, come si fa?», domanda retorico, innervosendosi.
«Scarantino lo evitavo, meno ci parlavo e meglio stavo – aggiunge -. Se a me Scarantino, per qualcosa che non so definire e non so spiegare, non mi piaceva, potevo mai andare da lui e fargli promesse di denaro? Io non ne ho mai fatte a nessuno e a lui meno che mai. Ma devo dire anche che lui non mi ha mai rivolto una richiesta del genere, non mi ha mai neanche parlato del fatto che qualcuno gli avesse fatto quel tipo di richiesta. Lui non piaceva a me e io non piacevo a lui». Intanto, è il funzionario incaricato di accompagnarlo in tutti i luoghi in cui viene spostato e posto sotto protezione. Di quel periodo un ricordo sembra essergli rimasto vivido nella memoria: «Io non ho mai visto lividi o segni di percosse su di lui, assolutamente».
Non ha mai visto nulla di strano neppure Alessandro Ricetta, all’epoca vice ispettore della mobile di Palermo, tra i primi a entrare nel pool investigativo già all’indomani della strage di Capaci. Quando arriva alla mobile, nel ’90, viene assegnato alla Catturandi, dove conosce Mario Bo. Che nel gruppo Falcone-Borsellino era il funzionario responsabile che teneva i rapporti con la magistratura e raccoglieva gli atti di indagine e li forniva a La Barbera. «Abbiamo gli stessi ideali di giustizia e legalità, nella maniera più assoluta – dice, riferendosi a Bo -. Mai saputo di comparazioni tra le dichiarazioni dei vari collaboratori, mi sarei ribellato a una cosa del genere se fosse accaduta. La rettitudine ci ha contraddistinto sempre».
Di Scarantino, in ogni caso, e di via D’Amelio in generale Ricetta si occupa poco. Malgrado sia uno degli agenti che quel 19 luglio arriva sul posto a un’ora e mezza dall’attentato. Le sue mansioni principali restano sempre quelle relative alla strage del 23 maggio. Ma ha comunque a che fare con lui, circostanza di cui non era particolarmente felice, come è stato per altri colleghi sentiti prima di lui. «Ci mandava per esempio a fare la spesa, “ho bisogno dei bastoncini Findus”, tornavamo con una confezione e magari ci diceva che ne voleva un’altra, quindi noi doveva tornare indietro, piccoli soprusi, se così si può dire. Ma mai nessun contrasto con lui – ricorda -. Certo, non è che quel servizio mi piacesse tanto, ho mantenuto sempre rapporti formali con lui, stavo il più possibile fuori dall’abitazione». Del resto c’erano anche altri funzionari con lui: «Può darsi che ci fossero anche persone al di fuori del gruppo – spiega -, poteva capitare di attingere ad altri della mobile».
In quei luoghi dove viene spostato il finto pentito con la sua famiglia insieme a lui nello stesso gruppo c’è anche Mattei. Mentre Ribaudo è nel reparto Informatica. Di entrambi non restituisce particolari ricordi. «Scarantino secondo me non era mai uscito dalla Guadagna – aggiunge poi, confermando quanto riferito anche da Ricciardi prima di lui -, il suo grado culturale era molto basso, i suoi figli parlavano esclusivamente in siciliano, anche lui. Penso che abbiano cominciato a parlare correttamente l’italiano una volta che si sono ritrovati a vivere fuori». Lo stesso ricordo ritorna ancora nei racconti di Caterina Castelli, anche lei all’epoca funzionaria del gruppo. «Scarantino era proprio una persona ignorante, se lui abbia mai avuto delle esigenze da sottoscrivere non lo ricordo e in ogni caso non avrei mai formulato io le sue richieste, avrei fatto scrivere comunque lui», precisa l’agente. Che non ricorda che siano mai state consegnate al finto pentito carte o documenti.