Pino Maniaci parla di giornalismo antimafia richiamando la classica metafora del cane da guardia e avverte: «Non chiamatelo controinformazione». Con lui anche Chiara Spagnolo, Paolo Esposito e lattore Giulio Cavalli
«Non è un lavoro per chiwawa»
«Il giornalismo è morto e dovremmo fargli il funerale. È curioso che invece ci facciamo un festival». Quando parla Pino Maniaci, le mezze parole non esistono. Il paradosso del direttore di Telejato inaugura l’incontro sul ruolo dell’informazione locale nella lotta alle mafie, nell’ambito del Festival Internazionale del Giornalismo 2010. Insieme a lui Giulio Cavalli, scrittore di teatro e attore, sotto scorta dal 2007, vincitore del premio Fava Giovani 2010; Chiara Spagnolo, cronista giudiziaria del Quotidiano della Calabria e Paolo Esposito di Caffè News Magazine.
A cominciare è proprio Pino Maniaci, «lo scassa minchia che dirige la televisione più piccola del mondo», come lo definisce Esposito. Con la solita informalità, Pino ricorda a chi non lo sapesse come funziona Telejato: 25 comuni del palermitano – tra cui Partinico e Cinisi – raccontanti attraverso una conduzione familiare che non lo abbandona nemmeno stavolta. La moglie di Pino, la figlia e una stagista, vengono presentate, loro malgrado, al pubblico. «Nell’isola abbiamo due giornali: a Palermo il Giornale di Sicilia, buono per avvolgerci le alici, e a Catania invece le sarde ci hanno fatto sapere che non vogliono essere nemmeno ammugghiate ne La Sicilia». Così Maniaci spiega la situazione dell’informazione nella nostra terra. Un’anomalia che porta a pensare che fare nomi e cognomi dei mafiosi, come fa Maniaci, sia da etichettare come controinformazione. «Il giornalismo antimafia non esiste, non è altro che giornalismo. Se la mia è controinformazione, allora l’informazione cos’è?», continua, «Io credo ancora al nostro mestiere come cane da guardia del potere: se dovete fare i chiwawa, cambiate lavoro».
L’informazione locale che si trova a lottare contro le mafie, in Sicilia come nel resto del sud, è costretta a convivere con altre realtà giornalistiche che rischiano di diventare megafono della criminalità organizzata. E’ successo a Catania nel 2008, con la pubblicazione sul giornale La Sicilia della lettera di Vincenzo Santapaola, figlio del noto boss e detenuto in regime di 41bis. E’ successo anche sulla Gazzetta di Caserta, dove nel 2005 è stata pubblicata una lettera del camorrista Sandokan, anche lui al 41bis, con tanto di risposta del direttore.
«Il giornalismo antimafia – spiega Paolo Esposito – non può limitarsi a fare elenchi di indagati o arrestati tra i pesci piccoli. Deve andare a fondo, ricostruendo la verità».
È la stessa convinzione di Chiara Spagnolo, cronista del Quotidiano della Calabria, che ha subito perquisizioni in casa e il sequestro del pc per il suo lavoro di indagine. «Essere giornalisti significa cercare di capire la verità e raccontarla. Come quello che è successo a Catanzaro: non una notizia, ma una bomba. Perché avrei dovuto relegarla al margine delle notizie?». Il caso è quello di un’inchiesta della procura di Salerno che vede indagati, per corruzione e favoreggiamento alla criminalità organizzata, anche sette magistrati che avrebbero intralciato alcune indagini. Una notizia che non è stata ripresa da nessun media nazionale ed è stata persino rifiutata dalle agenzie di stampa.
Giulio Cavalli giornalista non è. Eppure la parola è sempre il pane quotidiano del suo mestiere, quello di attore. E da poco anche di deputato regionale in Lombardia. «A 26 anni recitavo al Piccolo, ora non mi farebbero entrare neanche come pubblico. Però sono sicuro che mi intitoleranno la stanza del cesso quando morirò, perché in questo Milano è bravissima». Sulla situazione della mafia nel capoluogo lombardo Cavalli non ha dubbi: non cambia nulla rispetto al sud. «Spesso sono le stesse persone o i loro figli, con un solo problema: un eccesso di liquidità da dover nascondere», spiega. «A Gela, ad esempio, ho scoperto che la famiglia mafiosa degli Emanuello era in affari per la costruzione di una centrale termoelettrica a Lodi, a 300 metri dall’ufficio dove mio padre ha lavorato per trent’anni». Niente peli sulla lingua quando gli chiedono di parlare della sua vita sotto scorta: «Finiamola col Grande Fratello degli scortati in Italia. E’ uno dei voyeurismi più patetici degli ultimi anni. Legittima difesa è smettere di raccontarsi e uscire dal ruolo di vittima, andare in giro ed essere testimonianza non di un fenomeno criminale, ma di noi stessi».
La resistenza e la lotta quotidiana alla lunga portano frutto. È Pino Maniaci in conclusione che tira le somme dell’esperienza di Telejato. E insieme a mille difficoltà saltano fuori anche dei dati positivi: «Ormai l’80 per cento dei commercianti non paga più il pizzo. E poi prima facevamo un’enorme fatica a trovare la pubblicità, oggi siamo noi a doverla rifiutare perché ne possiamo fare poca, non più di tre minuti all’ora».
Un’informazione, quella locale, che può incidere. Ma, soprattutto, indirizzare verso la strada giusta. Quella della legalità.