Parliamo di mafia!

Martedì 20 aprile è cominciata a Venezia la rassegna “Teatro in tempo di crisi” che, con il patrocinio dell’università, propone un convegno, cinque spettacoli, tre letture drammatizzate e due laboratori in cui attori, registi, studenti e studiosi discutono della funzione che il teatro può avere nel periodo di crisi attuale
 
La rassegna è stata aperta da “Parole d’onore”, riduzione per un solo attore dell’omonimo libro del giornalista di Repubblica Attilio Bolzoni. Su un palcoscenico vuoto, le espressioni del viso accentuate dai chiaroscuri di luci essenziali, l’attore palermitano Marco Gambino ha dato voce a Totò Riina, Tommaso Buscetta, Michele Greco e altri boss, pentiti, sicari e picciotti. Come non li avevamo visti mai. I mafiosi, incarnati dalla grande abilità vocale di Gambino, si sono susseguiti sul palco offrendosi al nostro sguardo. Hanno usato copiose parole, loro che di solito sono tacciati di mutismo. 
 
Ma erano parole nuove, con un significato speciale. C’è la sbirritudine, contrapposta alla loro dignitudine; ci sono gli uomini d’onore, contrapposti agli altri uomini; c’è il rispetto che si deve portare alle proprie donne, ma non alle bottane. C’è l’ironia, chiara e inquietante, con cui ci dicono che non hanno mai fatto niente di male, hanno sempre lavorato per la loro famiglia. Ci sono gli avvertimenti, detti con un sorriso all’immaginario pentito in fondo all’aula: Torna a fare il bravo picciotto.
 
Ci hanno detto che i mafiosi parlano in modo essenziale, ma non è vero. La loro lingua è complessa, a volte sofisticata. C’è il simbolo (il patto di sangue scambiato su un santino), la parola di Dio (le Bibbie di Michele Greco) e ci sono persino le metafore: come quando Riina parla di un canuzzo e si riferisce all’eliminazione per acido del piccolo Giuseppe di Matteo (Uno dei nomi pronunciati un mese fa durante la giornata internazionale contro le mafie, a Milano, nel video in apertura).
 
Ci sono, infine, i silenzi. E quelli parlano più delle parole. Perché se le parole, per il loro lato bizzarro e immaginifico, a volte strappano persino una risata, i silenzi pietrificano. Il mafioso ti scruta, non dice niente. Poi nella sua fisionomia contratta, tipicamente siciliana, si fa strada una specie di sorriso. Una specie. E quella smorfia te la ricordi, perché capisci subito che viene da una profondità fredda e buia e rimani agghiacciato.
 
Come ha notato qualcuno nel dibattito che è seguito, questo spettacolo è privo della retorica del genere. Ci dà le parole dei mafiosi, come sono state dette e come Bolzoni le ha raccolte e montate. Non c’è il controcanto della critica, delle lacrime, delle vittime, dello Stato, dell’antimafia. Una scelta ardita, perché potrebbe essere fraintesa per esaltazione del mito mafioso. Invece, ci hanno detto Bolzoni e Gambino, questo non è mai avvenuto. Sia che il pubblico abbia riso, sia che abbia ascoltato in un silenzio di tomba, a nessuno è passato per la testa di scambiare questi monologhi per intrattenimento.
 
Centoquarantacinque anni fa la parola ‘mafia’ è entrata per la prima volta in un documento ufficiale, un rapporto prefettizio. Per decenni la mafia ha proliferato in un silenzio totale. Poi, quando se n’è cominciato a parlare, sono nate anche le polemiche. Su come si deve o non si deve parlare di mafia.
 
Ad una platea piuttosto indignata, Bolzoni ha spiegato che le polemiche di questo tipo sono vecchie, vecchissime. Ma si deve continuare a parlare, raccontare, testimoniare. Bisogna soprattutto aggiornare la narrazione del fenomeno mafioso, perché la mafia dei Riina e delle stragi sta finendo, per fare posto a una cosa diversa, ancora più pervasiva e impalpabile: la mafia della finanza.
 
Fruscio in sala. Come i siciliani negli anni Ottanta dicevano “tanto si ammazzano tra di loro”, i settentrionali del 2010 fanno fatica ad associare l’idea di mafia con qualcosa che li riguarda da vicino. Bolzoni incalza: ancora più che la ‘mafia’ (intesa come fenomeno siciliano) l’urgenza è la ‘ndrangheta di cui si parla poco, pochissimo, e che invece governa immensi capitali.
 
Alla fine del dibattito, Marco Gambino ci ha detto cosa pensa del tema “Teatro in tempo di crisi”. “Sì, è vero, in questo momento non ci sono fondi per nulla. Ma questa situazione può essere vissuta come un incentivo a dare maggior peso alle parole. Nel caso di “Parole d’onore” la riduzione che abbiamo visto, senza scenografia e supporto multimediale, ci è giunta dritta come un pugno allo stomaco”.
 
Per fare buon teatro, per fare teatro impegnato, non servono ricchi allestimenti: basta avere qualcosa da dire. Gambino ci ha detto che porterà lo spettacolo in Sicilia, lo vorrebbe mettere in scena nel teatro palermitano (ex convento) di Montevergini; poi vorrebbe farlo girare per i paesini. Perché si continui a parlare di mafia, sempre e a voce alta, nonostante ci sia chi la pensa in modo diverso.


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