Capire i fondamenti giuridici degli stati islamici e il loro rapporto con la religione, per conoscere la cultura e la storia del mondo musulmano. Se n'è discusso in un seminario presso il dipartimento di Filologia Moderna di Catania: per districarsi tra madrase e sharia
Se il Corano detta legge
“Capire il mondo islamico significa analizzare il linguaggio politico che lo caratterizza, essendo pienamente consapevoli dell’enorme influenza esercitata dal Corano”. Così la professoressa Laura Bottini, docente di Storia dei paesi Islamici, espone il tema del seminario tenuto insieme alla collega Mirella Cassarino, giovedì 13 e venerdì 14 gennaio, presso il dipartimento di Filologia Moderna di Catania. Si è discusso del rapporto tra religione e politica all’interno degli stati islamici, perché “per l’Islam lo stato deve necessariamente incarnare il progetto di perfezione divina attraverso la ricostruzione dell’antica età dell’oro decaduta con la morte di Maometto” prosegue Laura Bottini.
Un argomento che suscita sempre dibattiti, ma di cui pochi conoscono l’origine. Per capire, un po’ di storia è indispensabile. Senza dubbio, racconta la relatrice, la mancata presenza del profeta “annunciatore e interprete del verbo divino” fu uno dei motivi scatenanti per cui l’originaria unità del gruppo musulmano si scisse nelle principali diramazioni. Gli Sciiti, che rappresentano la minoranza e scelsero come guida Alì, cugino e genero di Maometto, e i Sanniti, che ammettono la Sunna, una specie di vangelo musulmano sulle gesta del profeta Maometto.
Tuttavia, fu solo con il dominio dei selgiudichi che nacquero le prime scuole di eccellenza di diritto: le madrase, veri centri di formazione, che traggono nuove forme giuridiche dall’interpretazione del Corano e della sunna. Qui a regnare era il termine igtihad, l’interpretazione, come base del diritto islamico: comprendere la parola di Dio significava, infatti, tradurla razionalmente in nuove forme giuridiche, tratte da fonti sacre e, per questo, attendibili. Ad opporsi alla tradizionale igtihad,e ai suoi giuristi mugtahid, fu nel nono secolo il termine taqlid: nuovi gruppi riformisti, contrari ad una interpretazione primitiva e ripetitiva, ritennero di dover giungere ad un nuovo sforzo interpretativo, rinnovando e attualizzando la conoscenza dei testi sacri.
La mediazione tra testo sacro e legge trovò però un intoppo: il Corano non fornisce alcuna prescrizione su come debba ergersi uno stato islamico, non suggerisce nessuna forma di governo ideale, né elenca chiaramente quali sono le leggi che dovrebbero starne alla base. Anzi, come sottolinea la professoressa Bottini, “il termine sultan, che originariamente stava a indicare la forza e il potere, è certamente presente in diversi passi del Corano, ma non sempre in senso giuridico”.
La visione del potere che ne viene fuori è contraddittoria, prosegue, e sono stati quindi gli uomini, gli esperti del diritto, ad identificare lo stato islamico così come lo conosciamo oggi. Ma la garanzia della giustizia, mezzo attraverso il quale realizzare la volontà divina, viene messo in discussione dalle varie interpretazioni che le fazioni più estreme dell’Islam forniscono. Tutt’oggi le leggi costituzionali islamiche sono indipendenti dalla sharia, la “legge di Dio”, ma non possono contraddirla: il compito degli esperti di diritto è proprio controllare che le norme in vigore siano compatibili con essa.
Un confronto, quello tra i mondi occidentale e islamico, che mette in luce differenze sociali, ponendo – secondo alcuni – le due culture in antitesi. Ma “capire fino in fondo il mondo islamico – conclude la docente – sarebbe impossibile tentando di dividere religione e politica, poiché una convive nell’altra in un unico complesso sociale”.