Carmine Menna, napoletano che ha scelto di vivere sull'Isola, era in gita in barca insieme a sette amici il 3 ottobre del 2013. «Eravamo soli e nel raggio di 400 metri c'erano persone esauste ovunque». I soccorsi arrivarono 50 minuti dopo. La sua storia è diventata un libro. «Non sono un eroe, chiunque lo avrebbe fatto»
L’ottico di Lampedusa, primo soccorritore del 3 ottobre «Mi svegliai per le urla, in mare una macchia umana»
Il 3 ottobre del 2013 delle urla svegliano Carmine Menna. Albeggia sulla baia di Lampedusa. L’uomo esce sul piccolo ponte della sua barca. «Pensavo fossero gabbiani – confessa – invece era una macchia enorme di persone, sparsi in mare in un raggio di 400 metri». Carmine e i sette amici con cui condivide la gita in barca, sono i primi soccorritori di uno dei più gravi naufragi del Mediterraneo di cui si ha testimonianza. «Eravamo solo noi, ci siamo spostati di circa 300 metri per andare incontro a quelle persone, ne abbiamo tirati 47 su una barca che potrebbe portarne al massimo dieci, il livello di galleggiamento era bassissimo. Nel frattempo si sono avvicinati alcuni gommoni e un peschereccio. I primi mezzi della Guardia costiera sono arrivati una cinquantina di minuti dopo il nostro primo Sos, ci hanno detto che non si poteva fare il trasbordo lì, in mare, quindi li abbiamo portati fino in porto».
Quella notte morirono in mare 368 migranti, una ventina non furono mai ritrovati, 155 furono salvati. Secondo quanto ricostruito sulla base delle testimonianze dei sopravvissuti, il peschereccio sul quale viaggiavano, si rovesciò a poche miglia da Lampedusa, a causa di un incendio sviluppatosi a bordo. Per questa tragedia solo il presunto scafista, Khaled Ben Salem, è stato condannato a 18 anni di carcere, ritenuto responsabile di omicidio colposo plurimo. Nel marzo scorso il Parlamento italiano, anche su richiesta del ComitatoTreOttobre, ha istituito proprio in questa data, la Giornata della memoria e dell’accoglienza.
Carmine di professione fa l’ottico e a Lampedusa non ci è nato, ma ha scelto di viverci. L’inflessione nel parlare tradisce le sue origini. «Sono di Napoli – racconta – sono venuto a Lampedusa in vacanza per la prima volta nel 1990 e ho deciso di restare. Volevo stabilire un record: un meridionale che emigra a Sud. Qui tutto è più rallentato e io avevo bisogno proprio di questo, d’inverno non c’è niente: vento, mare e gabbiani. A me piace così». Si trasferisce con la famiglia e apre un negozio di ottica sul corso principale. «I miei figli adesso sono grandi, si sono laureati, ma stanno cercando di avviare un’attività lavorativa partendo sempre da qui, hanno creato un brand di indumenti: fabbricano vestiti riciclando i sacchi del caffè».
Com’era Lampedusa nel 1990? «Strade sterrate, migranti e turisti sono sempre arrivati ma se ne parlava meno. Io credo che il problema della convivenza tra queste due anime dell’isola non esiste: tutti diventano più bravi di fronte alla pena degli altri. Quello che è davvero cambiato è il sistema di accoglienza, è diventato un affare dove chi può mangia, e poco importa se in una struttura che ha 250 posti accalcano mille persone». Prima di quel 3 ottobre, Carmine aveva già incontrato altre volte i migranti. «Ma a terra, mai in mare. La mattina amo correre verso la parte di Ponente, dove c’è il centro. Ogni tanto li trovavo appesi alla recinzione: mi chiedevano “qual è la direzione per Palermo?” Non sapevano nemmeno di essere su un’isola».
Pennellate di quotidianità sull’isola più a Sud d’Europa. Non appartiene alla routine, invece, l’alba del 3 ottobre del 2013. «Quando ci siamo resi conto di quanto era successo – racconta Carmine – uno dei miei amici ha chiamato i soccorsi. Poi abbiamo cominciato a tirarli su, dovevamo spostarci con la barca perché si trovavano sparsi in acqua, erano rimasti lì al buio per ore. Erano esausti, dovevamo stare attenti a non ferirli con le eliche, uno è finito sotto la barca e un mio amico si è buttato in mare riuscendo a salvarlo. Quando siamo tornati in porto, nessuno ci ha chiesto nulla, l’armatore ha solo depositato una relazione alla Capitaneria. Solo nei mesi successivi, i carabinieri ci hanno interrogato separatamente, probabilmente per verificare se le nostre ricostruzioni coincidevano. Ma i fatti sono quelli: abbiamo lanciato l’allarme e prima che arrivassero i soccorsi istituzionali abbiamo avuto il tempo di salvare 47 persone. Alla media di uno al minuto, sicuramente ne sono passati almeno 50».
Carmine e i suoi amici sono rimasti in contatto, tramite Facebook, con alcuni dei migranti salvati. Nei due precedenti anniversari li hanno rincontrati alle cerimonie di commemorazione. Quest’anno è stato Vito Fiorino, tra i sette che quella notte erano in barca con Carmine, a pagare le spese a due di loro per raggiungere Lampedusa e li ospiterà in casa sua. Intanto la storia dell’ottico di Lampedusa è diventata un libro, scritto dalla giornalista inglese Emma Jane Kirby, reporter della BBC. The Optician of Lampedusa, questo il titolo, è stato pubblicato in inglese e francese.
«Non mi sento affatto un eroe – conclude Carmine – se c’è una persona in mare, va salvata sempre, a prescindere dalle leggi e dai pensieri. È una cosa molto spontanea, chiunque, al posto mio, lo avrebbe fatto».