Per Cuffaro “accuse abnormi”

Il ‘caso’ Cuffaro ritorna sotto le luci della ribalta con un articolo sul periodico ‘Diritto penale contemporaneo’ firmato da Giovanni Fiandaca, docente ordinario di Diritto penale alla facoltà di Giurisprudenza di Palermo. Il tema trattato dal giurista nella prestigiosa rivista è quello del reato di concorso esterno in associazione mafiosa, che nel caso dell’ex presidente della Regione, va a sommarsi ‘incestuosamente’ alla condanna per favoreggiamento alla mafia subita dallo stesso Cuffaro.
Scrive il docente: “Nonostante il definitivo avallo in Cassazione della condanna dell’ex presidente della Regione siciliana per rivelazione di segreti di ufficio e favoreggiamento aggravati dal fine di agevolare la mafia (art. 7 d.l. n. 152 1991), la procura palermitana ha insistito nel prospettare una ulteriore imputazione per concorso esterno, nel presupposto che l’intervenuta condanna per i reati specifici sia pure aggravati dal fine di agevolazione mafiosa non fosse sufficiente a esaurire il disvalore delle condotte di contiguità attribuibili all’esponente politico: solo che questa ulteriore imputazione di concorso esterno (in atto sub judice) si basa su una rilettura – in chiave, appunto, di contributo concorsuale al rafforzamento di Cosa nostra – di gran parte dei medesimi fatti (salva l’aggiunta di un episodio nuovo non preso in considerazione nel primo processo) posti alla base della condanna già passata in giudicato”.
In pratica, secondo i magistrati palermitani, la condotta di Cffaro sarebbe troppo grave, mentre la condanna subita per favoreggiamento alla mafia, sempre ad avviso della Procura, troppo lieve. Solo che per dargliele ancora in testa- di questo in fondo si tratta-la Procura, di fatto, tira in ballo fatti che appartengono ad un processo già celebrato. “In tal modo” leggiamo sempre in uno dei passi dell’articolo di Fiandaca “i reati specifici oggetto di quest’ultima fungerebbero da indicatori fattuali o elementi di prova della condotta, o meglio dell’assorbente ruolo di concorrente esterno rivestito dall’uomo politico; e questo (presunto) maggiore disvalore insito nel (presunto) concorso esterno sarebbe tale, nell’impostazione dei pubblici ministeri, da superare ogni sbarramento opponibile in nome del principio del ne bis in idem sostanziale! Che impostazioni accusatorie come questa risultino palesemente abnormi invece proprio in base al divieto di punire due volte i medesimi fatti, a un operatore giuridico dotato di un senso minimo del diritto non dovrebbe per nulla sfuggire”.
Detto in parole semplici, il professore Fiandaca non sembra molto convinto dell’operato dei magistrati della Procura di Palermo che, dopo aver ottenuto una condanna a carico di Cuffaro, per favoreggiamento alla mafia, provano adesso a processarlo per concorso esterno in associazione mafiosa. A conti fatti, per come si configura oggi, il reato di concorso rimarrebbe avvolto in una vaghezza semantica che mal i concilia con un Stato di diritto. Forse sarebbe meglio cercare di capire e di focalizzare quelli sarebbero queste condotte: cosa che in parte, hanno fatto i giudici della Cassazione, nell’ormai celebre sentenza di assoluzione dell’ex ministro, Calogero Mannino. Ma questo dovrebbe essere compito del Parlamento.


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