L’intervista a Concetto Gallo: dall’eccidio di Randazzo a Giuliano


“La responsabilità dei moti spontanei di protesta per la richiamata alle armi venne addossata ai separatisti. A Catania, in quell’occasione, oltre allo stesso Gallo, furono denunciati all’autorità giudiziaria e processati l’avv. Gaetano Romeo e il prof. Santi Rindone.

«Per tutto il 1944 Catania fu in fermento. Ma non soltanto per il separatismo. C’era la fame e c’era soprattutto il potere centrale che manifestava la sua presenza con un atto odioso: la chiamata alle armi. Ed ecco i due motivi che determinarono i più gravi fatti di quel periodo in città: fatti che vennero attribuiti dal governo centrale all’indipendentismo, il quale, adesso potrei anche dirlo, era completamente estraneo.

1944 – Il municipio di Catania incendiato


L’assalto al municipio di Catania che si disse provocato dagli indipendentisti, ed io fui processato ed assolto per inesistenza di reato, fu, invece, causato da una serie di circostanze. Il sindaco, Carlo Ardizzone, prima indipendentista e poi transfuga perché fatto sindaco dagli alleati, aveva promesso ai pescivendoli l’abbattimento del calmiere. Ma a questo proposito il prefetto, che aveva ricevuto ordini contrari dall’alto, fu irremovibile. Il calmiere non si poteva eliminare. Una commissione di pescivendoli che chiedeva udienza al sindaco venne respinta e la circostanza creò terribili malumori tra la categoria che prese a sostare per quasi tutto il giorno davanti a piazza del Duomo. Più tardi dai quartieri più popolari arrivò una turba di ragazzi che forzò le finestre del comune, e penetrò negli uffici. Poi accadde che prese fuoco una tendina e tutto andò per aria. Io assistetti ai moti da un balcone, nel palazzo dove aveva sede il movimento. E con me c’era Finocchiaro Aprile, casualmente a Catania per una riunione. Qui non ci furono morti.
Il morto, invece, ci scappò in piazza San Domenico davanti al distretto, più tardi, quando una moltitudine di giovani si assiepò davanti al portone per protestare contro le cartoline precetto. Erano quasi tutti universitari che avevano già patito, in borghese, i disastri della guerra. A un tratto da una feritoia del portone spuntò la canna di un moschetto dalla quale partì un colpo che uccise un giovane. Io stesso vidi una cosa orrenda. Transitando alcuni minuti dopo il fatto dalla piazzetta, vidi un militare che raccoglieva da terra un pezzo di carne insanguinata servendosi di una baionetta. Era il cervello spappolato del giovane.
Ecco, era in quel clima che agiva il Movimento per l’indipendenza della Sicilia. Un clima di rancore contro il potere, contro l’Italia. E questo rancore faceva moltiplicare il numero dei nostri aderenti e le nostre sedi. E ci dava coraggio di compiere certi gesti. Come quando esponemmo la bandiera siciliana, rossa e gialla, dal balcone della nostra sede in via Etnea. Era il 15 ottobre 1944. Immediatamente venimmo denunciati all’autorità giudiziaria. Il processo venne celebrato al vecchio Palazzo dei Tribunali. Gli imputati eravamo tre: io, l’avvocato Gaetano Romeo e il professore Santi Rindone. Il processo non durò che pochi minuti: il pretore, un nostro amico e simpatizzante, ci assolse “per non luogo a procedere”. Fu il nostro trionfo.
Non c’è da meravigliarsi che un pretore fosse nostro amico. A Catania, in Sicilia, costituzionalmente e concettualmente, non c’era professionista, avvocato, ingegnere, medico che non fosse un indipendentista. Molti che hanno militato e militano in certi partiti erano con noi, dentro di noi. C’erano alcune tendenze ideologiche, tanto è vero che successivamente nacquero il Partito comunista siciliano, aderente al Mis, e il Partito repubblicano con Rindone presidente; ma prima di tutto c’era il Movimento per l’Indipendenza. Il nostro impegno, l’impegno di tutti era, in primo luogo, quello di rendere indipendente la Sicilia. Ottenuta l’indipendenza, la Sicilia avrebbe scelto, attraverso un referendum, la forma di governo che avrebbe retto il paese.
Ed era questa idea che, praticamente, emerse dal primo congresso, che venne tenuto il 28 dicembre 1944 all’hotel Belvedere di Taormina. Anche a Taormina non ci vollero dare un locale. Io però, mi misi in giro e trovai un albergo semidiroccato, il Belvedere. Pavesai una sala con i drappi giallo e rosso avuti in prestito da un addobbatore di chiese, coprimmo i muri malridotti dell’edificio e lì tenemmo il nostro primo congresso: 28 dicembre ‘44. Sei mesi dopo, la mattina del 17 giugno 1945, i reali carabinieri ammazzarono tre persone nei pressi di Randazzo, a una quarantina di chilometri da Catania. In quel periodo i conflitti a fuoco tra banditi e forze di polizia erano all’ordine del giorno. Il centro della Sicilia era popolato da bande armate che rapinavano, depredavano, uccidevano. Ogni tanto qualche banda incappava nelle pattuglie della polizia e qualcuno restava sul terreno. Quei tre, però, non erano dei banditi di “passo”, ma le prime gloriose vittime dell’indipendentismo siciliano. Erano Antonio Canepa, comandante dell’Evis, l’esercito volontario per l’indipendenza della Sicilia, e due suoi uomini: Carmelo Rosano e Giuseppe Lo Giudice.

Quella fu la prima volta che la gente, il mondo, sentì parlare dell’Evis, dell’esercito per l’indipendenza della Sicilia. L’Evis, del quale divenni il comandante, era una creatura di Canepa. Non si può spiegare l’Evis se non si spiega prima Canepa. Canepa, palermitano, trentotto anni quando venne ucciso, era un professore di dottrine politiche all’università di Catania. Non era un personaggio oscuro. Semmai un uomo irrequieto da sempre. Cominciò nel 1932 organizzando una “marcia su San Marino” insieme col fratello, fatto per il quale venne condannato a morte dalla Repubblica, e finì sinceramente antifascista, ideologicamente di sinistra e indipendentista. Fu lui infatti che durante la seconda guerra mondiale, eseguì alcuni atti di sabotaggio sui treni, atti di sabotaggio che culminano in un temerario attentato all’aeroporto militare di Gerbini, nei pressi di Catania. Antonio Canepa faceva capo al Mis palermitano, ma aveva una visione veramente globale e geniale del Movimento. Perché alla profonda cultura umanistica e politica assommava anche il coraggio e l’intraprendenza di un vero esperto di sabotaggio.
E proprio perché meglio di tutti riusciva a sintetizzare l’aspetto politico e strategico del Movimento, si convinse di un fatto assolutamente ineccepibile: della necessità di creare un movimento armato che affiancasse la parte politica dell’indipendentismo. In sostanza Canepa capì quello che non avevano capito tutti gli altri: che il Movimento, schieratosi su posizioni legalitarie, sarebbe corso verso la sua distruzione se non avesse costituito un organismo armato atto non soltanto a tutelarlo, atto non soltanto a rintuzzare la forza con al forza, ma a mettere le grandi potenze davanti al fatto compiuto con un evento eclatante.


Al congresso di Taormina era già venuta fuori questa tendenza. E il dibattito che ne era seguito non aveva trovato tutti d’accordo. Naturalmente non bisogna dimenticare che in mezzo a noi c’erano i «traditori» e coloro i quali, mentre discutevano di Sicilia e di indipendenza, stavano con gli occhi e con le orecchie vigili al Nord, alla piega che stavano prendendo le cose nel continente. Va detto che, per mantenere la faccia pulita al Movimento, era stata creata la Lega Giovanile Separatista, con presidente nazionale Guglielmo di Carcaci, la quale, sul piano pratico, tattico, strategico, si era arrogata una certa libertà d’azione. Ma la Lega Giovanile non bastò. La repressione diventava ogni giorno più dura. Le sedi venivano devastate da quelli del Mui, Movimento per l’unità d’Italia, e chiuse dai carabinieri reali. Allora, proprio dalla Lega Giovanile venne fuori la Guardia alla Bandiera, dalla quale doveva scaturire il vero organismo armato del Movimento per l’indipendenza della Sicilia. E il 15 febbraio 1945 io ne divenni il comandante per Catania.
Naturalmente noi non sapevamo quello che stavano facendo le quattro potenze a Yalta. Il nostro convincimento era che gli alleati guardavano di buon occhio questo movimento. E tale convincimento nasceva da un dato di fatto e da due episodi di cui sono stato personalmente protagonista: quando arrivarono in Sicilia gli alleati distribuirono un manifestino nel quale si chiedeva ai siciliani se erano per un plebiscito circa l’indipendenza della Sicilia. E non ci fu un siciliano che non disse di sì».

Morto Canepa, una parte degli indipendentisti era per il mantenimento della legalità; l’altra, per la ristrutturazione dell’esercito e per la lotta clandestina fino a quando non avessimo ottenuto l’indipendenza.

«Mentre ero in clandestinità, a Palermo, avvenne un episodio che mi riguardò personalmente: incontrai un personaggio dell’Intelligence Service, un uomo di grande prestigio, tuttora in vita (1974, ndr). Parlando con questo personaggio io cercai di sondare l’opinione inglese a proposito dell’indipendentismo per il quale noi stavamo combattendo. Si può immaginare come parla un inglese che fa parte dell’Intelligence Service.

Ebbene, senza alcun giro di parole quest’uomo, che, ripeto, è ancora vivo ma di cui non posso fare il nome, quest’uomo inglese cominciò a parlare della tradizionale amicizia tra Sicilia e Inghilterra, di Nelson e così via. Poi continuò, e disse pressappoco: “Sa, evidentemente noi stiamo con l’occhio molto vigile sui movimenti come quello in cui lei opera. Siamo molto vigili soprattutto qui in Sicilia tenuto conto della posizione dell’isola. Un nostro intervento, un intervento dell’Inghilterra e dell’America, può tuttavia essere giustificato a una condizione: che ci sia un fatto, qualcosa di irreversibile che possa giustificare una nostra presa di posizione”.

Il discorso mi sembrò chiarissimo. Anche se noi, se io non avevo preso accordi ad alto livello, anche se io ero all’oscuro di accordi tra i capi del Movimento e alleati, accordi che, credo, non ci siano mai stati perché se no Andrea Finocchiaro Aprile me ne avrebbe messo al corrente, anche se io non ero ufficialmente informato di accordi tra alleati e indipendentisti, quello mi sembrò, mi parve, un incoraggiamento. L’altro episodio lo narrerò più avanti.

Torniamo, pertanto, a Canepa. In effetti, questi forzando alcune posizioni di legalitarismo, costituì l’Evis, l’esercito, e decise la dislocazione dell’esercito nella zona di Cesarò, che si trovava al confine con due province ed era circondata di boschi. Le divise vennero improvvisate con materiale americano acquistato al mercato nero. Quanto alle armi, non possedevamo che quelle che avevamo tolto ai militari della Sabauda al tempo della sfida e alcuni mitra e fucili che Canepa aveva recuperato presso un contadino che venne minacciato di fucilazione se non li avesse consegnati. Proprio così. Canepa sapeva che il contadino possedeva quelle armi. E quando l’uomo negò, lui ordinò a due suoi uomini di scavare una fossa e di fucilarlo. Naturalmente il contadino ci diede tutto. Ma l’esercito di Canepa non combatté nessuna battaglia. Perché il comandante dell’Evis venne ucciso in un agguato dai carabinieri reali, la mattina del 17 giugno 1945.

L’avevo visto la sera precedente, il sedici. Doveva andare a Francavilla per recuperare un certo contingente di armi. Per conto mio avrei dovuto acquistare un certo numero di divise americane che dovevano servire per “vestire” le giovani reclute dell’Evis. Il 17 giugno, mentre stavo per lasciare Catania, ricevetti una telefonata da Guglielmo duca di Carcaci, comandante della Lega Giovanile e comandante generale dell’Evis. Mi disse: “Hanno ammazzato Canepa. Non ti muovere. Ti verrò a prendere io”.

Partimmo insieme verso Cesarò e ci rifugiammo nella ducea di Nelson, presso Bronte. Trascorsi alcuni giorni, arrivò un’automobile. Alla guida c’era un ammiraglio della marina degli Stati Uniti. Accanto una bella signora. Dietro, Guglielmo di Carcaci con in testa un cappello da commodoro. Entrai in fretta e furia nell’automobile, m’infilai una giacca da ammiraglio degli Stati Uniti, misi in testa il berretto da commodoro e l’automobile s’avviò. La città era circondata da polizia e carabinieri. Un vero presidio con posti di blocco ovunque. Ovunque uomini e barriere che si alzavano solo dopo che la polizia aveva controllato i documenti di chi voleva lasciare la città. Noi arrivammo al posto di blocco di Ognina. L’ammiraglio si fece riconoscere e la pattuglia dei carabinieri con un perfetto saluto aprì la barriera.

Ecco, questo è il secondo episodio che mi diede personalmente la misura della simpatia che il Movimento godeva presso gli alleati.E infatti la sera stessa, dopo una sosta con colazione a Taormina, giungemmo a Palermo, dove, insieme col duca di Carcaci, restammo ospiti a Villa Wittinger, che era la sede del comando alleato in Sicilia. A Villa Wittinger incontrai l’uomo dell’Intelligence Service inglese, il personaggio che mi avrebbe dato con le sue allusioni una conferma tangibile alle supposizioni che avevo fatto durante il tragitto da Catania a Palermo. Carcaci mi aveva detto che il merito di quel passaggio sull’auto dell’ammiraglio spettava alla nobildonna siciliana che aveva viaggiato con noi. Un fatto di galanteria? Probabile. Ma l’ammiraglio galante doveva essere sicuro che, qualora la cosa fosse stata scoperta, lui non avrebbe avuto nulla da temere. In sostanza, si sentiva coperto.

Morto Antonio Canepa, l’Evis era rimasto senza comandante. A Palermo dove ero stato accompagnato dall’ammiraglio americano, cominciai a prendere i contatti con tutti gli indipendentisti. Dopo essere rimasto due giorni a Villa Wittinger mi trasferii in casa dell’avvocato Sirio Rossi, un socialista indipendentista che allora abitava nella zona dell’Uditore, una zona nella quale alle sei di sera non si poteva già uscire.

Gli accordi di Yalta, avvenuti nel febbraio precedente, avevano già determinato alcuni ripensamenti fra le nostre file. Era già rientrato Togliatti dalla Russia; c’era già il governo di Parri; i partiti si erano ricomposti. E tra noi erano cominciate le incrinature. La riunione decisiva venne tenuta nella villa di Lucio Tasca, già sindaco di Palermo, a Mondello. Una parte degli indipendentisti era per il mantenimento della legalità e per la definitiva rinuncia a un’operazione armata. L’altra era per la ristrutturazione dell’esercito e per la lotta clandestina fino a quando non avessimo ottenuto l’indipendenza. Io cercai di rompere gli indugi.

Chiesi che non soltanto venisse ricostruito l’Evis ma che tutti i presenti s’impegnassero a firmare un documento nel quale si giurasse solennemente di non cedere. Antonino Varvaro fece l’inferno. Non voleva. La riunione s’interruppe. Mi affacciai per prendere una boccata d’aria con Finocchiaro Aprile e altri. Dissi: “Tra di noi c’è un traditore”. “Chi è?” mi domandarono. Risposi: “Varvaro”.

Tornammo in sala, le proposte erano due: rafforzamento della Lega Giovanile e scioglimento dell’Evis, una; l’altra, la mia, lotta armata. La riunione si sciolse prima che venisse presa una decisione».

“nell’estate del 1945, a Ponte Sagana, incontrai il re di Montelepre” 

«Esposi a Lucio Tasca la mia idea di parlare con Giuliano, al fine di  garantirci nella eventualità di una sistemazione dei giovani dell’EVIS nella sua zona. Tasca rise: “Sì ora fai il numero di telefono e ti risponde Giuliano”. Lo lasciai e insieme con Guglielmo di Carcaci effettuammo un giro nelle sezioni alla ricerca di un contatto utile a fare arrivare un messaggio a Giuliano.

Un paio di giorni più tardi mi indicarono la zona dove operava Giuliano: Ponte Sagana, e partii. In auto eravamo in quattro: io, Guglielmo di Carcaci, Stefano La Motta, il corridore automobilista, e un certo Pietro Franzoni. Arrivati a Ponte Sagana, in base alle indicazioni avute, dissi loro di fermarsi, di lasciarmi, di ripartire e di ritornare due giorni dopo. M’incamminai e dopo mezz’ora lo incontrai.

“Chi vi manda qui?”, domandò il giovane. “Mi chiamo Concetto Gallo, sono indipendentista, il comandante dell’Evis”, risposi. E aggiunsi: “E voi chi siete?”. Rispose: “Giuliano sono. Salvatore Giuliano”. Eravamo a Ponte Sagana, sulla strada Palermo-Trapani, un giorno del mese di agosto 1945. Era la prima volta che vedevo Turiddu Giuliano.

Giuliano era solo. Non era vero che andasse sempre circondato dai suoi uomini. Agiva sempre da solo. L’intesa fu quasi immediata. Lui disse di conoscermi “di fama”. A poco a poco si raggiunse la completa fiducia reciproca. Tanto è vero che a un certo punto della notte mi disse: “Ora io dormo un’ora e vossia fa la guardia. Poi, quando io mi sveglio, si appisola vossia”. E mi diede il mitra. Poco dopo sentii un rumore, lo svegliai ma lui, sicuro: “Vossia non si preoccupi: dev’essere stata una lepre”.

Di che cosa parlammo con Giuliano? Per la verità all’inizio parlai soltanto io. Feci quello che si dice l’indottrinamento. Cercai di spiegargli, con parole acconce, in modo che lui le potesse capire, che cosa aveva rappresentato l’Italia, l’unità, per la Sicilia. E cominciai sin dai tempi di Verre. I saccheggi, le spoliazioni, le distruzioni, le amarezze. Gli portai altri esempi: “Hai mai sentito parlare dei cantieri Florio? Ebbene quei cantieri furono chiusi quando, con l’unità d’Italia, l’industria cantieristica di Florio divenne la Florio-Rubattino”. E lui: “Ah, sì”. “Esisteva in Sicilia una grande industria di ceramica che aveva 400 operai. Quell’industria venne acquistata dalla Ginori e subito chiusa. Garibaldi? Anche Garibaldi tradì i siciliani”. Alla fine lui mi disse: “Ma allora che cosa ci hanno insegnato?”. E io: “Il falso”.

Poi gli esposi lo scopo della mia visita, che avevo cioè da sistemare i giovani dell’Evis rimasti sbandati dopo l’eccidio di Randazzo e la morte del comandante Canepa. Naturalmente si parlò anche di operazioni. Io ero propenso per un allargamento della lotta nella zona occidentale. Lui rispose: “Qui no”. E mi spiegò le ragioni. Che erano queste: trattandosi di zone brulle sarebbe stato difficile un vero e proprio rifornimento per l’esercito. Infatti lui, di problemi, sotto questo profilo, non ne aveva in quanto la sua banda si riuniva solo occasionalmente; per il resto, infatti, gli elementi di Giuliano vivevano come pacifici contadini.

Quindi lì, a Partinico, no. Per il resto la collaborazione sarebbe stata stabilita caso per caso. È assolutamente falso, ignobilmente falso, che io abbia promesso a Salvatore Giuliano la immunità per tutto quello che aveva commesso. È falso perché sarebbe stato sciocco, stupido, controproducente fare una simile promessa.

A un certo punto di quelle quarantotto ore in cui noi due siamo stati insieme mi raccontò la sua vera storia. E fu alla fine di quel racconto che io gli dissi questo: “Senti, Turiddu, io non ti posso promettere nulla. O perlomeno non molto. Ma questo che ti dico te lo posso promettere, sono autorizzato a prometterlo anche a nome degli altri i quali, se io domani dovessi morire, manterranno la mia parola. Io ti prometto che, se tu in questa lotta ti comporterai bene, dimenticando tutto il resto e guardando all’ideale dell’indipendenza, soltanto a quello, ti prometto che se vinceremo noi avremo una giusta considerazione per te e tu sarai giudicato per quelle che sono le tue vere colpe”.

Era un discorso tra uomini. Onesto, tra due latitanti. Gli avevo detto, infatti: “Vedi, tu sei qua sopra le montagne per i tuoi motivi; noi siamo sulle montagne per altri motivi. Noi potevamo stare benissimo nelle nostre case. Invece abbiamo deciso di batterci per un ideale di libertà e di indipendenza. Libertà e indipendenza che se la Sicilia avesse avuto prima, avrebbero inciso sul suo sviluppo economico e, certamente, tu, oggi, non saresti qui, in questa situazione”.

Con Giuliano, dunque, cercai di trovare un’intesa su un ideale e non una complicità mafiosa. Certo, molti hanno parlato di rapporti tra indipendentismo e mafia. E i rapporti ci furono indubbiamente. Ma furono rapporti cercati più dalla mafia che dagli indipendentisti.

E mi sembra anche abbastanza logico per un paese come la Sicilia. Inizialmente, è vero, la mafia, ma la mafia di Vittorio Emanuele Orlando, la mafia che cercava il potere, fu tutta con noi. Era stata debellata da Mussolini, dal prefetto Mori e con l’invasione alleata cercò di ricostruire le sue fila e cercò di inserirsi nell’area del potere.

È vero. All’inizio fu con noi. Chi era, infatti, il cavallo vincente tra il 1943 e il 1945? Naturalmente il Movimento per l’Indipendenza della Sicilia. E, infatti, arrivarono tra le nostre file. Poi quando si ricostruirono i partiti, quando la conferenza di Yalta spartì ufficialmente il mondo e americani e inglesi, sicuri che l’Italia sarebbe appartenuta al mondo occidentale, lasciarono il Movimento a se stesso, la mafia capì quello che avevano capito anche alcuni degli indipendentisti traditori: che il potere, il vero potere sarebbe stato esercitato da altri partiti, non dal Movimento. E ci abbandonarono. I rapporti con Giuliano furono, dunque, per una intesa sul terreno dell’indipendentismo e della lotta clandestina.

Dopo quarantotto ore di colloqui a quattrocchi, Giuliano mi accompagnò a Ponte Sagana. Ci stringemmo la mano e ci salutammo. “Chi tocca a vossia, mori”, mi disse, e ci abbracciammo. Era commosso. Non dimenticherò mai quegli occhi. Non lo avrei mai più visto. Giù vicino al ponte c’era già l’automobile con Carcaci, La Motta e Castrogiovanni che mi attendeva. Montai in automobile e rientrai a Palermo.

Un paio di giorni più tardi lasciai Palermo e mi spostai a Caltagirone, a San Mauro di Sotto, dove c’era una proprietà che apparteneva a mia moglie e dove io avevo collocato le nuove forze dell’Evis; una sessantina di giovani di ogni parte della Sicilia, in maggior parte messinesi, con le divise dell’Evis. Giovani che mantenevo io, con i soldi che riuscivo a ricavare dalla vendita dei prodotti della proprietà di mia moglie. Perché, di finanziamenti, il Mis e l’Evis non ne ebbero mai. I finanziamenti erano rappresentati dai contributi che ciascuno di noi pagava. Piccoli contributi di danaro e grandi contributi di sangue.E fu proprio col sangue che finì l’avventura dell’Evis. Proprio a San Mauro di Sopra, al Piano della Fiera, dove la mattina del 29 dicembre 1945 l’esercito sostenne la sua prima e ultima battaglia.

La prima e l’ultima battaglia combattuta tra siciliani e italiani, tra Sud e Nord, cominciò il 29 dicembre 1945 sul Piano della Fiera, a pochi chilometri da San Mauro di Sopra, nei pressi di Caltagirone. I siciliani erano una sessantina, sotto il mio comando: morto Canepa, come ho detto, io ero diventato il secondo comandante dell’EVIS sotto il nome di Secondo Turri.

Gli italiani erano oltre cinquemila ed erano sotto il comando di cinque generali. Con loro avevano un aereo da ricognizione, cannoni, mortai, fucili, mitra e carri armati.

Anche la battaglia, come del resto ogni altro episodio che ci interessava, in quei giorni fu preceduta da un tradimento, il solito tradimento all’italiana. Alla morte di Antonio Canepa erano seguiti il riordinamento del nostro esercito sotto la mia guida e tutta una serie di collegamenti tra cui quello da me operato con Giuliano. Lo scontro decisivo, però, tardava a venire e di questo ne avevano approfittato le due parti, indipendentisti e governo centrale, che nel 1945 era ormai insediato a Roma, per risolvere sul piano politico la questione dell’indipendenza siciliana».

(Intervista di E.Magri, 1974 – Riproposta nel 2009 sul settimanale “Gazzettino di Giarre” dal Prof. Salvatore Musumeci” presidetne del Mis, il Movimento per l’Indipendenza della Sicilia)

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