L'ordinanza di arresto dei 15 presunti esponenti del clan Ventura disegna la mappa del pizzo nella città ipparina. «Ci sono diverse squadre che vanno da tutti i commercianti». Alcuni dei quali provano a cercare protezione: «Gioia mia, come mi devo comportare?», chiede il proprietario di una pizzeria a Elvis Ventura
Le estorsioni a Vittoria, «a tappeto, pure i cinesi» Tra chi denuncia e chi cerca di trovare mediazioni
«Amore mio! Che ti ho disturbato?». «Mo fra’, scusami se ti ho disturbato». E ancora: «Gioia mia, come mi devo comportare?». Ai due capi del telefono non ci sono due amanti, non sono nemmeno amici, né familiari. A parlare è un imprenditore di Vittoria, proprietario di una pizzeria a Scoglitti. E l’effluvio di sdolcinati epiteti è indirizzato ad Angelo Ventura, detto Elvis, arrestato ieri con l’accusa di associazione mafiosa, il figlio di uno dei presunti capi della Stidda vittoriese. Quando alla pizzeria si presentano due uomini per chiedere «un regalo per la famiglia», cioè una chiara richiesta di pizzo, l’imprenditore prende il cellulare e chiama Ventura. È convinto che la mediazione di chi a Vittoria comanda, possa convincere a desistere quelli che ritiene dei semplici manovali della criminalità. «Sinceramente – ammette poi alle forze dell’ordine che lo interrogano – ho telefonato a Elvis perché figlio di Filippo Ventura, che era in carcere per fatti di mafia, e quindi se ci fossero stati problemi poteva sicuramente darmi un aiuto». Ma l’imprenditore non sa che proprio il suo interlocutore è il mandante di quel tentativo di estorsione, stando a quanto ricostruito dagli investigatori.
Sta in questa dinamica perversa il rapporto tra gran parte delle vittime e la mafia vittoriese, che ieri ha subito un pesante colpo con l’arresto di 15 presunti esponenti del clan Ventura. «A tappeto, c’era un’assoluta sottomissione delle attività commerciali», hanno spiegato gli inquirenti che hanno condotto l’indagine Survivors. Ma soltanto pochi, dopo essere stati agganciati dalle forze dell’ordine, hanno raccontato le minacce e le violenze subite. Racconti che squarciano il fitto velo di omertà che opprime la città ipparina.
«Giacché è Natale, dovete fare il regalo a quelli che sono in carcere… è il pizzo da pagare». Così il titolare di una ditta di traslochi in ambito nazionale e internazionale è stato avvicinato dal gruppo stiddaro. A contattarlo un suo lontano parente, Salvatore Nicotra, arrestato ieri, nonché genero di Giovanbattista Ventura, detto Titta, avendone sposato la figlia. Siamo nel dicembre del 2009, il primo periodo delle indagini, e Nicotra cerca di conquistare la fiducia dell’imprenditore, presentandosi con fare rassicurante. «Cugino, a breve sarebbe arrivata da te una squadra che ti avrebbe chiesto dei soldi. Però, se i soldi, 500 euro, Ii dai a me, subito, io entro il 20 dicembre te li faccio rimborsare e quelli della squadra non verranno più a cercarti. In caso contrario saranno loro a venire da te e dovrai versare tra gli 800 e i mille euro e se non lo farai, saranno cazzi amari». È da questa conversazione che emerge la capillare divisione della città per imporre il pizzo. Nicotra fa presente alla vittima che «a Vittoria girano diverse squadre» che effettuano estorsioni «a tappeto, a tutti i commercianti, compresi i cinesi». «Se qualcun altro dovesse venire da te per chiedere il pizzo, basta che tu dica che stai già pagando ai marmarari e ti lasceranno in pace». L’imprenditore però non cede e, fermato per un controllo dalla polizia, decide di denunciare il fatto al commissariato.
Va decisamente peggio al titolare di una ditta di movimento terra di Vittoria, che subisce attentati incendiari e viene schiaffeggiato dopo aver opposto un iniziale rifiuto alla richiesta di pizzo, finendo per versare duemila euro al gruppo, che allora, siamo nel gennaio del 2010, è guidato da Rosario Nifosì, considerato il mandante di quell’estorsione, mentre Salvatore Macca ed Emanuele Galofaro sarebbero gli esecutori materiali. «Famiglia una sola ne ho, la mia». Galofaro riferisce la risposta avuta dall’imprenditore e la sua reazione. «Io gli ho detto: “minchia, belle cose qua dentro ci sono, belle cose che prendono fuoco», e «appena mi ha detto “dammi nome e cognome” (di chi ti manda ndr), minchia gli ho dato un ceffone, che non siamo in caserma». È in questo caso che sarebbe stata messa in atto la forma più innovativa di estorsione, imponendo un assegno, non coperto, da scambiare in contanti.
Negli anni successivi cambiano gli uomini al vertice del clan, con l’ascesa di Filippo e Giovanbattista Ventura, ma non le modalità e la pervasività delle estorsioni. A essere preso di mira è anche il titolare di un’azienda impegnata nella lavorazione di prodotti ortofrutticoli. «Siamo della famiglia e prima di mezzogiorno ci devi consegnare cinquemila euro», è la richiesta diretta che arriva sempre da parte di Garofalo. Per tre volte, nel luglio del 2011, l’imprenditore riceve la visita degli emissari del clan e per tre volte riesce a prendere tempo, posticipando il pagamento.
Infine il tentativo di infiltrarsi nell’economia della città si sarebbe spinto anche nel settore delle onoranze funebri. Un business che sarebbe stato appaltato al terzo dei fratelli Ventura: Vincenzo Ventura, detto Gino, indagato a piede libero. Lui, in società con l’imprenditore Maurizio Cutello, crea l’agenzia D’Angelo-Ventura che, stando ai risultati delle indagini, ha una duplice finalità: fare da copertura ad altre attività illecite e conquistare una fetta di mercato sottraendola con minacce ed estorsioni ad altri imprenditori del settore. «Mi devi passare qualche morto», così nell’ottobre del 2010 Gino Ventura si sarebbe presentato da un concorrente di Scoglitti, minacciandolo di «spaccargli la testa», nel caso in cui non gli avesse fatto largo nel mercato dei funerali nella frazione marinara di Vittoria. Un atteggiamento arrogante che si sarebbe spinto dino a chiamare la neonata agenzia La Paradiso e aprirla proprio accanto a un concorrente col nome Paradiso.
Secondo quanto raccontato da Giovanni Crimi – uno dei pentiti che ha contribuito all’indagine – tutte le entrate del gruppo stiddaro venivano puntualmente registrate in un quaderno. «C’erano tutti i soldi delle estorsioni – ricostruisce – tutti i soldi che si prendevano con le varie attività. E anche i soldi che si dovevano spendere, che potevano servire per la cocaina o a livello di l’abbigliamento o di qualsiasi cosa, da dare a qualche familiare per andare a fare i colloqui. C’era tutto, si chiamava il libro mastro».