Aglianico: origini e futuro del vino di Federico II di Svevia

In quante occasioni vi sarà capitato di leggere o sentire qualcosa a riguardo del Barolo del Sud? Che si tratti di un cliché o di una strategia di marketing, è così che spesso viene identificato l’Aglianico, uno dei vitigni principi del meridione d’Italia dal quale si ottengono due prestigiose denominazioni in Campania e in Basilicata, rispettivamente Taurasi Docg e Aglianico del Vulture Docg. È facile lasciarsi tentare dal paragone con i top player dell’enologia quando si vuole dare enfasi alle potenzialità di un vitigno o alle particolari capacità di invecchiamento. E anche la memoria popolare contribuisce a tessere le fila di un legame fra Langhe e Lucania attraverso l’adagio «Non c’è Barolo senza Barile» che sintetizza un espediente a oggi non più praticato: nel passato, le uve di Aglianico da Barile, nel Vulture, partivano alla volta del Piemonte per arricchire le sfumature del Nebbiolo.

Il barolo vanta sicuramente una nobile storia, vino dei re dell’aristocrazia e ancora oggi sinonimo di eleganza e grande longevità. E se anche l’Aglianico fosse stato nella storia un vino altrettanto regale? Ho chiesto un parere a due produttori di eccellenza delle regioni particolarmente vocate ed evocative di questo vitigno, Adolfo Scuotto in Campania ed Elena Fucci in Basilicata, che sulla questione hanno le idee chiare. «I due vitigni hanno molte affinità genetiche, tanto da definirli quasi cugini – commenta Fucci – ma non è necessario appoggiarsi alla notorietà di un altro vitigno/vino per ritagliarsi la propria importanza, enologica e non». Le fa eco Scuotto, produttore ed export manager dell’azienda di famiglia: «Capisco che la notorietà del Barolo sia superiore e l’aggancio linguistico facilita nel processo di comunicazione, ma non è così che si crea l’identità del brand».

Cosa rappresenta l’Aglianico nella sua regione e come è interpretato dalla Vostra azienda?
Scuotto: «È il più coltivato in Campania, con i suoi settemila ettari di vigna su un totale regionale di circa ventimila, presenza fissa nei listini di più di 200 aziende. Questa diffusione trasversale ne determina però anche la difficoltà di individuare una cornice stilistica unica: Aglianico più generoso o Aglianico più austero? Vendemmiato a settembre o a novembre? Della costa o delle altitudini vicine ai 600 metri?».
Fucci
: «In passato le aziende che lo producevano professionalmente erano pochissime, ma tutte le famiglie avevano appezzamenti più o meno grandi con filari di Aglianico. Perché il vino era un alimento usuale della dieta dei nostri nonni e bisnonni, una ricchezza delle famiglie insieme alle olive e alle castagne. Certo non era il vino di oggi, non c’erano le nozioni e le tecniche di oggi per la vinificazione, e spesso venivano fatti errori grossolani che probabilmente hanno limitato anche la sua diffusione sul palcoscenico mondiale».

Oltre all’appartenenza a un territorio, non possiamo sottovalutare l’impronta che ciascun vigneron vorrà dare al suo vino nel tentativo di renderlo unico…
Scuotto
: «La nostra azienda ne ha voluto fortemente un’interpretazione fuori dal coro. Partendo dall’Aglianico vinificato esclusivamente in Acciaio, volutamente reso fresco e dalla beva agile e dinamica per arrivare al Taurasi, unica Docg rossa dell’Irpinia che nonostante la maturazione in barrique, la breve macerazione e il lungo affinamento in bottiglia rendono comunque assolutamente pronto e godibile senza che possano trascorrere lunghi tempi di attesa. L’ultima grande scommessa sarà a breve in commercio: faremo danzare sulle punte un culturista! Sì, è l’immagine giusta, perché sarà un vino di struttura ma che conserva la piacevolezza olfattiva e gustativa e l’agilità tipici della giovinezza».
Fucci: «Per noi i presupposti sono: rispetto per la tradizione e la cultura contadina che i nostri nonni, in particolare mio nonno Generoso che oggi ha 95 anni, hanno tramandato, ma con la giusta innovazione per eliminare quegli errori tecnici che lo rendevano così difficile da bere. Il mio Titolo è quindi un’espressione moderna ma non modernista dell’Aglianico».

Da quando questo vitigno si è posto ai vertici della qualità?
Scuotto: «Come altre varietà campane, anche l’Aglianico ha avuto bisogno di tempo per essere recuperato e valorizzato. I numeri sono ancora bassi se rapportati alle produzioni della prima metà del Novecento, quando si vendeva principalmente sfuso come vino da taglio, ma il processo di valorizzazione ha iniziato a dare i primi importanti risultati dalla fine degli anni ’70 e sempre più guide e concorsi lo stanno posizionando ai vertici delle loro classifiche, soprattutto nella sua denominazione Taurasi (Docg dal ’93). Solo recentemente si è cominciato a parlarne oltreconfine come vitigno importante con una forte identità e il percorso di affermazione/riconoscibilità tra il grande pubblico è ancora all’inizio. Umilmente penso che per raggiungere questo importante obiettivo si debba spostare l’attenzione sulla denominazione, perché la trasversalità territoriale può regalare ricchezza in termini di biodiversità, ma comporta anche una difficoltà comunicativa. Inoltre gli strumenti di comunicazione non potranno essere circoscritti alle sole iniziative dei singoli produttori, ma vanno condivisi anche dagli attori istituzionali e consortili».
Fucci: «Le aziende storiche alla fine degli anni Novanta si sono dovute scontrare con un forte cambiamento del territorio. Piccole aziende che prima non vinificavano, ma cedevano le loro pregiate uve anche alle altre aziende del territorio, sono state stimolate a migliorarsi e aggiornarsi. Quindi direi che è sicuramente negli anni 2000, nonostante le numerose crisi economiche, non ultima questa collegata all’emergenza sanitaria Covid, che è iniziato il percorso dell’Aglianico del Vulture da eterna promessa a conferma».

Cosa ne pensate della definizione Barolo del Sud? Vi aiuta a promuovere le vostre etichette? Trovate davvero delle affinità?
Scuotto
: «Come export manager posso affermare che questa definizione ha valicato anche i nostri confini, soprattutto quando si parla di Taurasi.
È fuor di dubbio che si tratti di un accostamento che dà autorevolezza e prestigio alla nostra denominazione, ma è pur vero che ridimensiona la sua unicità. E potrebbe essere fuorviante, soprattutto per chi degusta. Il voler enfatizzare concetti quali struttura, tannicità e longevità non devono necessariamente portare ad associazioni con altri vitigni e denominazioni che hanno un quadro gusto-olfattivo comunque diverso. Il marketing è tanto più efficace quando enfatizza la differenza: solo così il tuo target ti acquisterà per il tuo essere squisitamente unico e non perché, guardando una bottiglia di Barolo e una di Taurasi in un’enoteca a New York, sei quello che costa meno».
Fucci: «Non amo questa definizione, anzi spesso la uso al contrario! Storicamente, nel passato e per tantissimi anni, è stato l’Aglianico che viaggiava verso nord ad arricchire il Nebbiolo, quando le Langhe avevano ancora la nebbia e le tecniche enologiche che non erano affinate così come oggi, e quindi avevano necessità di un aiuto nelle annate meno fortunate. Mio nonno conserva ancora qualche documento di trasporto e non a caso a Barile, dove c’è la stazione ferroviaria da cui partivano i carri per il nord, ancora oggi c’è il detto “Non c’è Barolo senza Barile”. Inoltre il Barolo era il vino dei re, mentre qui in Basilicata l’Aglianico era il vino di Federico II di Svevia».

Alessia Zuppelli, da social media manager a sommelier iscritta alla Fondazione Italiana Sommelier-Sicilia, la sua missione rimane sempre la stessa: comunicare, anche attraverso un calice di vino.


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