Scuola, il diario di una prof etnea fuorisede «Come vivere a Torino in 15 metri quadrati»

Non sai cosa sia una casa piccola finché non ti ritrovi sistematicamente il dentifricio sui piedi. Finché non modifichi le tue manovre di igiene orale e converti lo stile libero in rana al momento di lavarti la faccia. Finché non ti sorprendi a fare il saluto romano mentre baci lo specchio del lavabo-teglia e ti salta in mente che il bidet può essere una soluzione migliore per una rapida rinfrescata alle ascelle. Non sai cosa sia una casa piccola finché il tavolo non rappresenta l’unica dimensione orizzontale e sennò il tetto, finché non realizzi che il portatile deve necessariamente assolvere la funzione di tagliere e i libri su cui stai lavorando dovranno per forza di cose fungere da tovaglia.

Sensazioni che conosce bene chi si è trasferito a vivere a Parigi e ha avuto la fortuna di trovare un benefattore (individuo disposto ad affittargli un espace atypique con lo spiovente a venticinque gradi o uno studio di nove metri quadri, ndr). Ma anche in Italia non mancano le petit Paris. Le riconosci soprattutto dalle mansarde e ovviamente dalle miniature, ci trovi molti clochard ma anche tanti benefattori. Il docente che si trovi nella condizione di traslocare in meno di sei giorni in quella petit Paris che è Torino si imbatte fondamentalmente in due inconvenienti. Primo: la necessità di trovare un locale in cui, a fine giornata, sia possibile non solo vivere, fare l’apericena e morire, ma anche compilare le pagine quotidiane del registro elettronico. Cioè dire, usufruire di quella connessione a internet che, in nome dell’Unità d’Italia 2.0, spesso manca pure nelle scuole piemontesi e nelle case dei colleghi che ti ospitano. Due: trovare una casa in cui depositare le valigie e, più che altro, dalla quale lavorare liberamente al suddetto registro elettronico finché il caricabatteria consente, senza doversi difendere dall’accusa di far lievitare la bolletta altrui.

Per il docente fuorisede, la ricerca di alloggio a Torino non somiglia più al milionesimo esame: consente di diversificare le esperienze e immettersi finalmente nel mondo dei casting. Capita che ti venga richiesto di posare per una foto, nel caso in cui avessi dimenticato che è importante piacere ai coinquilini assenti. Capita che tu venga scartata per i tuoi orari lavorativi, tendenzialmente incompatibili con quelli di una casa di studenti. Se si è supplenti e si vuol vivere da soli, poi, occorre rassegnarsi, perché nessuno comprenderà che piacerebbe anche a te sapere se fra tre mesi lavorerai: il preavviso previsto dal tuo contratto, nella maggior parte dei casi, sarà nettamente superiore alla durata conosciuta del tuo incarico.

Così, un bel sabato, quando proprio avevi perso le speranze, incontri un benefattore. Qualcuno a cui probabilmente hai fatto pena e che alla fine cede e ti affitta un tetto per un periodo inferiore ai dodici mesi. Il tetto in questione ripara appena quindici metri quadri, ma tu – che vieni da un mese e mezzo di agenzie e da una settimana di due scuole e 190 alunni – per le prime quarantotto ore lo confondi con la reggia di Venaria. Quando hai appena affittato un monolocale di quindici metri quadri, capita che Torino ti offra la presentazione dell’ultimo libro di Marc Augé, con il sociologo francese in carne e ossa: e tu compri il suo ultimo libro, Diario di un senza fissa dimora, e ti senti meno sola, a vivere in uno spazio inferiore ai venti metri quadri.

Poi arriva la prima domenica in quindici metri quadri tutti tuoi, e per la felicità puoi avere l’infelice idea di invitare due esseri umani, contemporaneamente, allo stesso pranzo. In quei momenti inizi a renderti conto che, se il ripiano di una delle due piastre elettriche dovevi usarlo come piano d’appoggio, a promettere un risotto ti sei rovinata. Anche il lavandino così alto, che ti richiede di fare tutto in punta di piedi, è come la storia del bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto: i gomiti in quella posizione saranno pure l’allenamento migliore per il flamenco, ma comunque hai i crampi ai polpacci. Attenzione a non alimentare pregiudizi: in quindici metri quadri il letto può essere grandissimo. In due si può dormire e non incontrarsi mai, restare svegli e fare le acrobazie: basta solo aprirlo e scendere a uno a uno. In ogni caso, il tuo valore sul mercato cresce esponenzialmente: tutti possono fare colazione a letto, ma in pochi possono preparare il caffè dal letto.

Anche quella scena famosa di Renato Pozzetto nel Ragazzo di campagna fomenta gli stereotipi: la doccia di un monolocale di quindici metri quadri può essere comoda. Basta solo non farsi prendere dall’entusiasmo e considerare le dimensioni dello scaldabagno: i medici sconsigliano di sciacquarsi con l’acqua gelida quando fuori ci sono quattro gradi sotto zero. È anche vero che, quando inviti un amico in quindici metri quadri, vorrà certamente aiutarti e il suo pensiero entrerà in un circolo vizioso: «Questo puoi metterlo… ah, no. Questo puoi spostarlo… ah, no». Allora dovrai necessariamente stopparlo e dirgli che ci sei passata, spiegargli che a volte la colonna sonora di Tetris sembra l’unico modo per rilassarsi.

Il fondo lo tocchi quando ti suggeriscono di montare dentro casa del filo da stendere, perché se esci di casa alle sei e mezza, rientri la sera e l’armadio ha una capienza facile da dedurre, in presenza di inverno rigido, il venerdì mattina potrebbe esserti rimasto solo il pigiama. Allora compri venti metri di filo, riesci a incastrare tutto per un bucato perfetto, ma al momento di tagliare ti rendi conto che non avevi le tenaglie. È solo mezzanotte, sei in piedi dalle cinque e mezza e la tua pazienza resisterebbe: se solo non dovessi snodare venti metri di filo di rame in quindici metri quadri.

Ai quindici metri quadri, comunque, ci si affeziona come a una tana. Se c’è l’amore, è meglio se torna a dormire a casa sua. Se c’è la salute, bisogna solo preservare quella mentale. Se c’è il lavoro, finalmente un lavoro, dai quindici metri puoi uscire a goderti la vita.

Barbara Distefano

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