Romanzo a puntate, decima parte La terza lettera alla sabbia

Terza lettera alla sabbia

Riuscirò mai a riprender sonno? Forse no. Sarò costretto a guardare la notte anche quando non c’è luna. E la notte senza luna è crudele: è come una spelonca fredda. Ti cancella.

Sudo, ormai. Sudo sempre. Le lenzuola si riempiono di rammarico e astio. Non posso che prendermela con me stesso: adesso so cos’è un’ossessione. Non posso fare a meno di immaginarti. A volte devo moderare il respiro perché ho l’impressione che possa scoppiarmi il cuore. E’ così: mi soffermo e sento come un tamburo, qualcosa che mi sconquassa.

Un mattino mi sveglierò e mi ritroverò con il petto squartato. Vedrò il mio cuore pulsare come un corallo rosso. E poi potrò finalmente avere pace.

Dopo, quando non dormo, la giornata è una processione inutile. Fatico a stare al passo con ciò che ho da fare. Ho da ridisegnare il mondo, e non è facile. Dovrei tornare alla realtà zeppo di memorie per poi farle asciugare sulle tele.

Ma se non riposi più, se non trovi requie, se non hai più nemmeno la forza di sollevare un braccio?

Soltanto adesso mi rendo conto di non avere amici; avrei dovuto coltivare diversamente il mio tempo. Tra i compagni di accademia c’erano anche buone persone. Ma io cercavo l’isolamento. Non mi permettevo di perdere le mie ore giocando, o bevendo nelle taverne. Non mi addomesticavo all’idea di correre dietro alle gonne.

Gli altri sì che lo facevano.

Ricordo che una sera conobbi un’attrice che mi colpì moltissimo. Non sembrava indifferente alla mia persona. Ma, allora come adesso, non riuscivo a parlare, ritenevo che tutto ciò che avrei potuto dire si sarebbe rivelato indifferente, se non banale.

Anche in quell’occasione la sua attenzione scemò dopo pochi minuti. Si fece possedere, invece, da un mio conoscente rozzo e villano.

Quell’uomo era una pressa, stringeva così tanto le sue prede da farle rimanere senza fiato: per soffocamento o emozione.

Fatto sta che, già al primo appuntamento, generalmente, gli si concedevano.

Io dell’amore ho conosciuto poco, pochissimo. Non sono mai andato nei bordelli: per paura; e non per chissà quali principi. I conoscenti mi spingevano a farlo, ed io no. Da quel momento ho iniziato a coltivare la mia solitudine.

Mi sto raccontando a te, sabbiolina, come fossi dal mio confessore.

Chi riesce a non fare affidamento su nessuno è già un vincente, pensavo. Ho cominciato a disegnare disperatamente, nell’attesa di trovare il mio modo di essere artista. Molti anni della mia vita li ho trascorsi a copiare i maestri, quelli dai quali avrei potuto prendere spunto ed ispirazione. Ma con il passare del tempo mi sono accorto che non veniva fuori niente.

C’è stato un momento in cui ho perfino pensato di smettere. La frustrazione era tanta e tale da non permettermi repliche. Però non sapevo fare nient’altro. Non avevo nessun senso del commercio e dell’imprenditoria, non conoscevo nessuno che potesse farmi fare esperienza in fabbrica. A pensarci bene fu l’idea tremenda della ripetitività dei gesti compiuti dagli operai a darmi lo spunto per la prima concettualizzazione della mia opera.

Realizzare sempre lo stesso dipinto, con la stessa consistenza materica, con lo stesso colore raggrumato. Eternamente. E la cosa cominciò a riuscirmi. Fintanto che a guardare quello che facevo erano gli abitanti della contrada vicina tutto rimase un gioco. Anche se urgeva il pane, mi accontentavo degli sguardi incuriositi dei passanti.

Fu quando passò per caso un critico della capitale che la mia fortuna professionale cambiò. Mi disse che avevo un immenso talento e che sarebbe riuscito con i giusti agganci a farmi fare, di lì a breve, una mia personale.

La cosa andò puntualmente in porto: la mia mostra fu un totale successo e riuscii a vendere tutte le mie tele. La mia palese ritrosia al pubblico fece il resto: non si può che amare un pittore misantropo: è lontano, irraggiungibile, caustico.

Ma nascondo dell’altro.

Un giorno entrai in una libreria stipatissima di tomi: davvero, pareva che quel luogo avesse divorati tutti i segni del mondo.

I libri erano così tanti da non permetterti una scelta: semplicemente non si facevano scovare.

Ho passato mesi tra quegli scaffali; a sfogliare, immaginare.

Poi, dopo molti giorni, mi accorsi di non aver fatto attenzione a un piccolo uscio che si trovava alla mia sinistra.

Aldilà v’erano altre mille stanze piene di pagine, libelli, opuscoli, poesie.

Avrei voluto tuffarmi tra quelle opere, e passare il tempo a respirare l’odore della carta.

La carta, infatti, ha un odore; in pochi ne sanno la primavera e l’inverno; perché la carta, sabbiolina, ha tutte le stagioni.

Quasi mi sembrò di vedere un’imbarcazione con vele d’inchiostro sollevarsi dal pavimento.

Mi commossi, e non ho mai saputo se ciò a cui avevo assistito poteva essere legato alla madre di tutte le lingue. All’ape regina della parola.

Il mare che ho visto non poteva che essere miele, perché viscoso.

Io non so se da allora ho più saputo essere leggero; in realtà, non lo sono mai stato. Ma il miele ai piedi è benedizione e condanna. Ti fa trascinare i passi come un prigioniero: la bellezza, per uno come me, inchioda al suolo. Le tue membra faticheranno di più per portarti ovunque. Lo spazio, anche il più piccolo, diventerà una percezione immensa.

Laddove gli altri corrono, tu strascichi, laddove gli altri saltano, tu ruzzoli.

E forse la differenza tra un artista e la gente sta in questo; e non ha nulla di romantico.

In quella libreria v’era anche un vecchio: sempre ubriaco. Non si accorgeva più dei libri che vendeva, ne avrei potuto rubare mille senza che se ne avvedesse.

Russava fragorosamente. Il suo rantolio provocava un moto d’aria che toglieva sempre la polvere dai tomi.

Le enciclopedie, i dizionari, le cosmogonie, i bestiari, le letture sacre: ogni cosa traeva beneficio da quella sua spossatezza da beone, da quel suo fiato etilico di tempesta.

In lui non v’era passione. Non dimostrava alcuna attitudine per il suo mestiere di libraio.

Ma fu il suo sonno profondo a sollevare il veliero, ne sono convinto, e a rendermi ancora più basso, terragno, fosco.

Sabbiolina, ti scongiuro, fatti rivedere; vorrei raccontarti altre storie.

[Illustrazioni di Francesco Guarino]

Sergio Salamone

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