Simbolo della città, talismano contro le calamità, ma anche figura religiosa contesa per un periodo con l’eterna rivale Palermo e «quasi una grande spugna di tutti i culti religiosi di Catania e dintorni». La storia della festa di Sant’Agata è nota ai più, ma rimangono molti gli aspetti che non tutti conoscono. Come, per esempio, il divieto di tirare il fercolo per le donne: almeno per la tradizione, non un segno di esclusione maschilista ma un gesto di rispetto per chi rappresenta le sacerdotesse di Iside. «Già dalla morte, il popolo attribuisce alla patrona un forte legame con i terremoti», afferma Iorga Prato, tecnico archeologo. «Quasi fosse una vendetta, secondo la tradizione popolare, Sant’Agata è artefice del sisma che il giorno stesso della sua morte avrebbe fatto crollare il palazzo di Quinziano» – il proconsole romano che si era invaghito di lei e ne aveva poi ordinato l’arresto e l’uccisione – morto poi cadendo nel fiume Simeto.
Il velo e il liotru
«L’anno successivo alla morte di Sant’Agata, il 5 febbraio 252, accade un’eruzione». Le fonti storiche spiegano come la lava non puntasse in realtà sulla città, ma sulle campagne circostanti. Gli studi geologici, infatti, accertano che la colata si è fermata nei dintorni dell’odierna Mascalucia. «I contadini, a quel tempo per lo più pagani, preoccupati per le loro terre rubano il sudario di Sant’Agata che la tradizione diceva fosse resistente al fuoco. Per questo è anche patrona dei vigili del fuoco». I primi a utilizzare il velo agatino, dunque, non sono i cristiani. Dopo questo primo intervento, anche per la mancanza di fonti storiche attendibili, «per i secoli successivi, non ne abbiamo più notizie. Sembra quasi che si sia persa l’attribuzione al velo di questo potere talismatico». Il titolo di oggetto apotropaico della città si sposta al liotro. L’elefante, prima sopra un altro edificio, viene poi preso dai monaci benedettini – che fondano la cattedrale nel 1094 – e trasferito dentro i confini della chiesa madre, «in un recinto, sopra la porta di Eliodoro, da lì il nome liotru», chiarisce Prato. «Da questo momento sono i benedettini di Sant’Agata a curare l’elefante. I pagani convertiti lo utilizzano come talismano e i monaci conservano il ricorso a questa tradizione». Aggiungendo anche il ricorso al velo, affidato da allora al vescovo della città, e utilizzato nel 1169, in occasione «dell’eruzione che distrugge il porto di Ognina ma risparmia il resto della città».
Il legame con la tradizione greca ed egizia
Come accade con altri elementi della religione cristiana, «la devozione per Agata riesce ad assorbire diverse entità. Nasce come una nuova festa, ereditando atteggiamenti e culti che esistevano a Catania e dintorni prima del cristianesimo». Assieme al velo, un’altra testimonianza dell’eredità pagana sono le minnuzze, le cassatelle ripiene di ricotta. «Questa tradizione trova riscontro nel pandolce realizzato nel culto demetriaco – afferma Iorga Prato -. Era usanza durante le festività di Demetra consumare pani dolci ripieni di ricotta che rappresentavano la fertilità della dea». Il culto della divinità greca a Catania è quello prevalente. In misura minore appare anche quello di Dioniso, che trova riscontro in un altro legame inaspettato: quello dei ceri e delle candelore con le rappresentazioni di falli maschili. Si tratta di un elemento «delle falloforie, tipiche processioni delle festività dionisiache». La festa di Sant’Agata si innesta anche al culto di Iside. A testimoniarlo è la «barca in legno che precedeva la vara di Sant’Agata fino ai primi del ‘900 e che veniva poi sacrificata». Ma non tutti i rituali possono considerarsi riciclati. «Qualcosa di nuovo c’è – precisa il tecnico archeologo -. Mettere in comunicazione festività così diverse». E soprattutto «il legame tra cittadini e patrona. I catanesi si sentono fratelli con la santa e, quando esce fuori il busto, per i credenti non è una statua in argento. È la testimonianza di Agata». Un ricordo che unisce sacro e profano. E passa anche per la tavola.
La controversia con Palermo
C’è un legame che unisce Catania e Palermo e passa per la pasta martorana. Un altro dolce caratteristico della festa, infatti, sono le olivette, che simboleggiano i frutti dell’ulivo del quale la giovane si sarebbe nutrita durante la prigionia. I dolcetti sono realizzati in pasta reale, ricetta inventata in un convento palermitano. Per i catanesi è un dato certo che Agata sia nata nei confini della città etnea, ma qualche fonte ne ipotizza la provenienza palermitana. «Viene arrestata, processata e uccisa a Catania – sottolinea Prato – tutto è legato alla città. Ma in effetti si sarebbe rifugiata a Palermo e sarebbe stata catturata lì, nel quartiere Guilla». Agata è una delle quattro protettrici palermitane, la sua statua è tra quelle dei Quattro canti e «il suo culto viene sostituito con quello di Santa Rosalia solo in epoca normanna».
L’attaccamento dei catanesi
Proprio in questo periodo storico emerge un dato che mette in evidenza il legame della popolazione etnea con la Santa, talmente forte da aver spinto i cittadini a contrastare il vescovo che aveva deciso di consacrare la cattedrale ricostruita dopo il terremoto del 1169 a Santa Maria delle Grazie. Il periodo è quello successivo alla conquista dei normanni, che impongono anche un nuovo simbolo alla città: San Giorgio deve sostituire il liotro. Se sull’elefante non si scatenano grosse dispute, per la scelta della patrona il popolo invoca a gran voce Agata. «Si decide di ricorrere a una estrazione e il nome di Sant’Agata fu quello pescato in tutti e tre i turni», continua Prato. «Tuttavia la cappella sinistra della chiesa è ancora oggi dedicata alla Madonna e il culto di Santa Maria delle Grazie è molto forte». Il liotro ritorna come simbolo civico dopo il 1239. Anche questa conquista si deve alla patrona. «Federico II, giunto in Sicilia per sottomettere l’isola, arriva a Catania. Sta per distruggere la città, ma la popolazione chiede di poter officiare un’ultima messa e di risparmiare la vita a donne, bambini e vecchi», racconta l’esperto. Federico accetta e, per miracolo, «sul suo libro da messa compare l’acronimo Nopaquie: Noli offendere Patriam Agathae quia ultrix iniuriarum est, “Non offendere il paese di Agata, perché è vendicatrice di ogni offesa”». L’imperatore risparmia la vita ai cittadini, ne cambia il rango in città demaniale e ripristina l’elefante quale simbolo di riconoscimento sugli stendardi.
La questione femminile
«Sono molti gli aspetti che andrebbero approfonditi, il culto viene formalizzato nel ‘600 – sospira Iorga Prato -. Una delle dinamiche perdute è quella delle ‘ntuppatedde, dal nome della chiocciola». Si tratta di donne che andavano in giro per le strade, promettendosi agli uomini in cambio di regali, dagli abiti ai dolci. «Per Sant’Agata scelgono le donne – sottolinea Prato -. C’è il ribaltamento dei classici ruoli sociali: Catania è una città che ha una patrona donna, una festività femminile». I singoli devoti «sono stati poi assorbiti dai circoli che hanno origini medievale; periodo nel quale le donne non avevano molti diritti». Ma l’esclusione nella gestione materiale non cancella «i tanti elementi femminili della festa. Il coro più importante, ad esempio, è quello delle monache di clausura». L’esclusione femminile, però, spiega Prato, non punterebbe a sminuirne il valore: «A tirare il cordone sono gli schiavi, i vastasi, che cercano di espiare le loro colpe come facevano i devoti di Iside indossando una tunica bianca e un copricapo nero. Ma le donne, secondo la tradizione, erano sacerdotesse di questo culto, quindi avevano un ruolo fondamentale».
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