Sant’Agata, tutte le spese dietro la festa «I fedeli? Un giro di soldi impressionante»

«I fedeli portano soldi». Lo dicono i gestori delle cererie di Catania, che nel periodo di Sant’Agata di ceri ne vendono a centinaia e li impacchettano coi fogli di giornale, come il pesce alla pescheria. Ceri di tutte le dimensioni – il più grande pesa 135 chili – che vengono portati in processione dai devoti nel corso delle festività agatine. A raccoglierli ci pensano le stesse cererie che li vendono. È il «rottame», che viene fuso e riusato l’anno successivo e quello dopo ancora, finché non si esaurisce. «Un giro di soldi che è una cosa impressionante», lo definiscono gli addetti ai lavori. A margine di questo redditizio «giro» si inseriscono gli investimenti che il Comune etneo fa sulla festa: dai fuochi d’artificio alle luminarie, passando per le candelore. «Spendiamo ma guadagniamo dall’indotto», fanno sapere da Palazzo degli elefanti. E i negozianti, pur toccati dalla crisi, confermano.

I finanziamenti del Comune di Catania
«Per quest’anno prevediamo di spendere la stessa cifra del 2014, intorno ai 415mila euro», raccontano dall’ufficio dedicato alla festa di Sant’Agata del Comune di Catania. «Ma vedremo di risparmiare qualcosa, per via della spending review», dicono. Quattrocentoquindicimila euro che vengono presi dalla tassa di soggiorno, versata dai turisti per le prime tre notti di pernottamento in città. Un’imposta che, da regolamento comunale, serve a «finanziare gli interventi per il turismo». E dalla quale l’amministrazione attinge a piene mani per onorare la Santa. «Più di 100mila euro servono per i fuochi di Vaccalluzzo – spiegano da Palazzo degli elefanti – Altri 40mila vanno alle luminarie di Ferrara». Per chiamata diretta, decisa dalla commissione per i festeggiamenti agatini. La quale assegna pure i finanziamenti da destinare alle candelore: «Tremila euro, cinquemila euro, settemila euro, dipende dalla rilevanza della candelora». In totale, quelle di pertinenza comunale sono undici.

I turisti in giro per la città
«Fudda e malavinnita», dicono i negozianti di via Etnea. Cioè tanta confusione ma poca gente che mette mano al portafogli. Gli unici a fregarsi davvero le mani sono i titolari di bar, ristoranti e gastronomie: «Certo, c’è la crisi, ma non ci possiamo lamentare». Chi si lamenta, invece, sono i torronai: «Vendiamo poco, poco, poco», lamenta il gestore di una bancarella in piazza Stesicoro. A pochi passi da lui, una coppia di turisti bolognesi si guarda intorno col sorriso: «Sono parecchi anni che veniamo a vedere la festa di Sant’Agata – dicono – Dal punto di vista dell’organizzazione e della pulizia ultimamente la vediamo migliorata». «È sempre meglio», sorride una guida turistica di origini austriache che vive a Palermo da 15 anni. «Ho organizzato un tour per circa 150 miei connazionali – racconta – Per mostrare la festa così tipica. Agli austriaci tutto questo folclore piace». Loro, però, non alloggiano a Catania: «Troppo cara: abbiamo l’albergo a Giardini Naxos e veniamo in città col pullman. Peccato che manchino le indicazioni per piazza Alcalà, noi ci siamo persi». 

«Per noi Sant’Agata è alta stagione», racconta Carlo Parisi, titolare della Gattopardo house, in via Minoriti. «Quest’anno ho tutte le stanze piene, a differenza dell’anno scorso, in cui erano libere anche quelle con l’affaccio su via Etnea». Per i piccoli albergatori, il periodo agatino è un momento d’oro. Fa gioire meno la gestione dei fondi della tassa di soggiorno: «Prima che venisse introdotta, nel 2011, la festa si faceva lo stesso e i soldi si trovavano – dice Parisi – Quelli delle tasse dei turisti dovrebbero essere spesi per servizi permanenti. Per esempio, per pagare gli straordinari ai custodi dei musei, in modo che possano tenere aperto anche il 15 agosto». Dai balconi delle stanze della sua struttura la passerella dei devoti si vede quasi per intero. Molti hanno in mano i loro ceri.

L’affare della cera
«Signora, chiddu nicu è cincu euro, ma su’ è p’a picciridda c’u passu a tri». Cioè: signora, il cero piccolo costa cinque euro, ma se è per la bambina me ne dia soltanto tre. È una scena che si ripete – quasi uguale – da piazza Duomo alla villa Bellini. Finita la contrattazione, il venditore di candele racconta: «Era il cero piccolo, quello da 300 grammi. Io ne ho circa 70 chili». Lui i suoi ceri li ha comprati in cereria. Le due più famose sono una accanto all’altra, in piazza san Placido. Gambino e Cosentino, le saracinesche sono affiancate. Per anni sono state due delle ditte che si dividevano la raccolta della cera. Tutte le candele donate al fercolo vengono «rottamate». E l’acquisto del «rottame» è un affare ambito. Lo gestisce l’amministrazione della cattedrale di Sant’Agata. «La raccolta la facevamo noi – spiega la titolare della cereria Gambino – Adesso non più. Quello che fa la Chiesa non è tanto chiaro alle persone…». Perché fino a tre anni fa, afferma l’imprenditrice, «si facevano delle gare d’appalto, era tutto chiaro e limpido, alla luce del sole». Una chiarezza dovuta a «quei problemi per il fatto dell’antimafia». Il riferimento, com’è ovvio, è alle presunte ingerenze mafiose nella festa di Sant’Agata, discusse in processo che nei prossimi giorni ricomincerà per il secondo grado di giudizio. Nel corso del primo grado, il pentito di Cosa nostra Daniele Giuffrida aveva dichiarato ai magistrati, riferendosi agli anni ’90: «La ditta che si occupava di raccogliere questa cera era obbligata a consegnare al nostro gruppo la somma di 50 lire per ogni chilo raccolto. Nei tre giorni di festa, la ditta ci consegnava una somma di circa 15 milioni di lire. Anche in questo caso si trattava di una vera e propria estorsione». «Levata un po’ di notorietà per quello che è successo – continua la responsabile di Gambino – stanno tornando a fare le cose in segreto. Come viene assegnata la rottame non si è capito assolutamente». Adesso i Gambino hanno perso l’appalto, ma il funzionamento della gara è uguale: «Siamo noi cererie che dobbiamo pagare per avere la cera. Un tot al chilo, fino a qualche anno fa erano 40, 50 centesimi al chilo. Che io sappia adesso è molto aumentato. La Chiesa ci guadagna, e anche finemente, da questo riciclo di cera. I fedeli portano soldi. C’è un giro di soldi che è una cosa impressionante».

L’accusa di mancanza di trasparenza viene rigettata in maniera netta dalla Chiesa: «Il bando viene controllato dalla guardia di finanza», fanno sapere dall’ufficio stampa della cattedrale. «Vengono rispettati tutti i vincoli imposti agli enti morali». Versione confermata da Giuseppe Leonardi, il titolare della Premiata cereria Cosentino, fondata all’ombra dell’Etna nel 1795: «Noi compriamo un po’ di rottame, certo. Viene divisa secondo quanto viene stabilito da un commercialista e registrato davanti alla guardia di finanza, con tanto di bollo di sopra», sostiene. «C’è stata nel passato un’asta pubblica – dice Leonardi – Ma siccome non aveva senso farla in tutt’Italia, la cosa è stata ristretta a Catania». Sul prezzo della cera usata al chilo, però, non si sbilancia: «Non me lo ricordo – dichiara – Ci sono le spese dei camion, delle persone che stanno sui camion…». Sottovoce, però, qualcuno dice che non è argomento di cui bisogna parlare. Perché, fanno capire alcuni lavoratori del comparto, gli aggiustamenti in corsa non sarebbero infrequenti. Intanto, tonnellate e tonnellate di ceri viaggiano tra le braccia dei devoti catanesi. Spesso accesi, nonostante un’ordinanza del sindaco Enzo Bianco lo vieti: «Secondo me è un’idiozia – si accalora Leonardi – La candela accesa è un atto di fede, se me la vieti mi stai impedendo di professare la mia religione». E gli fa eco la concorrente delle cererie Gambino: «Ci sono tante persone che per giorno 5 neanche mangiano per comprarsi la torcia. Il sindaco avrà le sue ragioni, ma deve organizzarsi di conseguenza».

Carmen Valisano

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