«Piangeva e aveva gli occhi di fuori. Era irriconoscibile, non era lei». È questa la descrizione che fa Anna D’Agata di sua figlia Martina Patti, mentre lei la guarda appena dalla cella dell’aula Serafino Famà del tribunale di Catania. La 24enne è imputata nel processo per avere ucciso la figlia Elena di quattro anni e per averne occultato il cadavere, nel giugno del 2022 a Mascalucia (in provincia di Catania). Gesti che ha poi confessato per primo al padre Alfio, dopo avere inscenato il rapimento della bambina da parte di un commando di uomini armati e incappucciati. «Qualche giorno prima era pensierosa, non voleva uscire, ma stava anche preparando esami – ricostruisce la madre dell’imputata che ha scelto di rispondere alle domande del pubblico ministero e degli avvocati delle parti – All’inizio abbiamo creduto che avessero davvero rapito la bambina». Una fiducia che comincia a vacillare quando dalle telecamere si scopre che la scena descritta da Patti, in realtà, non è mai avvenuta. «Facevamo domande a Martina ma lei continuava a ripetere sempre la stessa versione. A un certo punto – aggiunge la donna – ci ha chiesto di essere lasciata in pace, perché era stanca e sentiva che le stava scoppiando testa».
È il marito, dopo avere ricevuto la confessione della figlia, a dirle che «”Elena non c’è più”. A quel punto, Martina – ricorda ancora la madre continua a chiedermi: “Perché piangi, mamma?” e io riuscivo a rispondere solo: “Ma non ti rendi conto di quello che è successo?“». Un racconto straziante per la donna che ha ripercorso l’intera vicenda, partendo dall’inizio della relazione della figlia con il padre della bambina Alessandro Del Pozzo. Anche lui avrebbe dovuto essere sentito come testimone, oggi, ma al suo posto è stato presentato un certificato medico. «Martina ha fatto di tutto per stare con Alessandro, anche contro la nostra volontà. Non eravamo d’accordo, perché non era un ragazzo adatto a lei», dice la donna facendo riferimento a un episodio in cui Del Pozzo sarebbe stato fermato con della droga in auto. L’arresto dell’uomo, con l’accusa di essere uno dei rapinatori di una gioielleria di via Umberto a Catania, arriverà dopo, nel 2020. Una vicenda da cui, dopo cinque mesi in carcere, era stato assolto per non avere commesso il fatto.
Una relazione iniziata nel giugno dell’anno della maturità, il 2016. Tutti e due si iscrivono alla facoltà di Scienze motorie a Messina. «Verso la fine di ottobre, dopo appena un mese dall’inizio dell’università, mia figlia mi disse che era incinta – fa una pausa D’Agata prima di continuare – Il dispiacere. Mi è crollato il mondo addosso e non mi vergogno a dire che ho chiesto di interrompere la gravidanza. Ma entrambi con determinazione hanno rifiutato e, allora, non ho insistito e ho accettato». La richiesta di abortire sarebbe stata frutto della preoccupazione della donna: «Lui aveva l’obbligo di firma in caserma, nessuno dei due lavorava, litigavano sempre per motivi stupidi, perché lui era geloso e si innervosiva facilmente. Hanno voluto fare i grandi senza esserlo», dice tra le lacrime.
In aula, davanti alla corte, la donna descrive quelli che ritiene essere gli episodi più gravi. «Mentre Martina era già in gravidanza, mi ha raccontato che Del Pozzo gli aveva dato dei colpi di manganello sulle ginocchia – ricostruisce la madre – Mentre, quando la bambina aveva quattro mesi, il giorno dell’Epifania, mia figlia è venuta a casa con dei lividi sulle braccia. In quell’occasione – aggiunge – siamo andati dai carabinieri per denunciare. Dopo 15 giorni, però, lei è tornata a vivere con lui». Una convivenza altalenante che si sarebbe definitivamente chiusa nell’aprile del 2022. «Martina con Elena era una mamma affettuosa e amorosa – dice la donna per rispondere a una domanda degli avvocati della difesa, Tommaso Tamburino e Gabriele Celesti – La seguiva in tutto e per tutto, non l’ha mai trascurata, le dedicava tutto il suo tempo. Per questo – conclude – non è possibile che abbia fatto quel gesto: non era in lei. Non ha mai torto nemmeno un capello alla bambina».
«È impossibilitato a deambulare. Necessita di ulteriori trenta giorni di riposo e cure». Sono queste le parole, scritte su un certificato medico, che giustificano la seconda assenza di Alessandro Del Pozzo sul banco dei testimoni. Una giustificazione che ha fatto sorgere qualche perplessità al presidente della corte Sebastiano Migneni che ha sottolineato che non vorrebbe arrivare a disporre «l’accompagnamento coatto del teste». L’avvocata delle parti civili, Barbara Ronsivalle ha precisato che «Del Pozzo, dopo l’incidente stradale, al momento è in sedia a rotelle e, vista la delicatezza della sua deposizione, sarebbe meglio fosse anche psicologicamente sereno». Il suo esame è stato rimandato per la prossima udienza che è stata già fissata per l’anno nuovo, così come quella ancora dopo quando dovrebbe essere proprio l’imputata a essere sentita in aula.
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