Sono 15.410 le persone potenzialmente interessate dal presunto disastro ambientale colposo dovuto al «rilevante» inquinamento dell’aria e del mare nell’area industriale del polo petrolchimico siracusano che ieri, nell’ambito dell’operazione denominata No fly, ha portato al sequestro del depuratore di Priolo Gargallo. Gestito da Ias, la società per azioni Industria Acqua Siracusana, tratta i rifiuti civili dei comuni di Melilli e Priolo – che sono tra i soci – e della frazione di Belvedere di Siracusa oltre a quelli delle grandi industrie petrolchimiche (Priolo Servizi, Isab, Sasol, Versalis, Esso e Sonatrach). Entrato in funzione dal 10 gennaio del 1983, in questi 39 anni l’impianto non avrebbe mai funzionato come dovuto. Ovvero non ha mai reso innocue le acque reflue civili e industriali immesse: le concentrazioni inquinanti (in particolare di idrocarburi) sarebbero state «esorbitanti rispetto alla capacità depurativa dell’impianto», si legge nei documenti dell’inchiesta della procura. Si fa riferimento a 4864 chili al giorno a fronte dei 695 consentiti. E per gli inquirenti, gli indagati – 26 tra persone fisiche e società – avrebbe saputo tutto senza fare niente. I due vertici di Ias, Donato Infantino (dal 2013 al 2018) e Enrico Monteleone (dal 2019 a oggi), «non avrebbero eliminato i problemi di scarsa efficienza pur essendone consapevoli». E non solo loro. Anche i grandi utenti, ovvero le società petrolifere, avrebbero avuto una condotta «consapevolmente rivolta alla massimizzazione del profitto e alla continuità della produzione».
L’impianto di deodorazione mai attivato e le carenze strutturali dell’impianto di depurazione per le sostanze inquinanti e rischiose. Nemmeno la manutenzione ordinaria sarebbe stata fatta e a peggiorare la situazione ci sarebbe stato anche l’uso improprio delle vasche, mai coperte. Così, sono state rilasciate nell’atmosfera in maniera diffusa oltre 77 tonnellate di composti organici volatili (Cov) all’anno a fronte di 1,72 autorizzati; 13 tonnellate solo di benzene mentre il limite da non superare avrebbe dovuto essere di 0,5. Un presunto disastro ambientale lungo quasi quarant’anni che avrebbe avuto un impatto non solo sull’ambiente (a due passi c’è anche l’area naturale protetta delle Saline di Priolo dove nidificano i fenicotteri rosa) ma anche sulle persone. Nel corso delle indagini preliminari, anche sulla base di diverse consulenze tecniche, è stato ricostruito che «l’enorme quantità di sostanze nocive e tossiche abusivamente immesse in atmosfera» ha potenzialmente coinvolto migliaia di persone nell’area di un chilometro: 12mila residenti nel territorio di Priolo, 61 lavoratori dell’impianto Ias, 443 addetti allo stabilimento Versalis, 106 addetti della centrale termoelettrica Archimede di Enel, 200 addetti della società Siteco (fino al 2018) e circa 2600 bagnanti al giorno nel periodo tra maggio e settembre di ogni anno. In alcune situazioni metereologiche, la diffusione può essersi estesa oltre il chilometro interessando gli abitanti di Mellili, Solarino e Siracusa e gli oltre 210 insediamenti agricoli presenti nella zona.
«Caro amico mio è giusto che tu sappia l’esito della verifica ambientale che abbiamo fatto, è il grimaldello che utilizzeranno i sostituti procuratori per mettere in croce Ias». Inizia così una conversazione intercettata nel febbraio del 2019 in cui a parlare con Infantino è Monteleone. Un dialogo in cui i due convergono sul fatto che l’impianto «non ha mai funzionato» e che «sta arrugginendo perché non è stato messo in conservazione ed è messo lì a morire». C’è poi un secondo dialogo da cui il gip Salvatore Palmeri evince che gli indagati pur essendo a conoscenza delle criticità, «sono rimasti inerti di fronte a una situazione di gravissimo inquinamento ambientale». Dopo l’avviso di garanzia arrivato a Infantino, Monteleone sembra preoccupato: «È vero che la responsabilità penale è personale, però, voglio dire… La verità di fondo è che bisogna togliersi questo “bubbone” dell’impianto». Un bubbone la cui gestione adesso è passata nelle mani di un amministratore giudiziario che, nell’immediato, avrà il compito di bloccare i reflui industriali e, più a lungo termine, quello di mettere a punto tutti gli accorgimenti necessari al depuratore. Nel frattempo, resta ancora da capire dove le aziende del petrolchimico scaricheranno i reflui.
«Questa bomba scoppiata ieri è gravissima – ha commentato l’ambientalista Giuseppe Patti nel corso della trasmissione Direttora d’aria – perché colpisce lo strumento che avrebbe dovuto essere il filtro finale delle emissioni in mare e nell’aria, l’ultimo anello della catena». Una catena che nel quadrilatero industriale aretuseo è lunga e che aveva portato a denunce, indagini e al sequestro di alcuni impianti. «Nel 2014 – ha ricordato l’ex responsabile nazionale per la legalità dei Verdi – avevamo depositato un esposto alla Comunità europea per chiedere una messa in mora dell’Italia per il monitoraggio della qualità dell’aria della zona industriale». Quella dove c’è il più grande polo petrolchimico d’Europa e dove, in particolare in quel periodo, i miasmi erano diventati insopportabili. «Nemmeno gli enti preposti sapevano che cosa venisse immesso nell’atmosfera, tanto che dall’Arpa ci avevano risposto – ha chiarito Patti – che avevano solo due centraline per i sette impianti di raffinazione e, peraltro, senza che fosse mai stato aggiornato il registro degli inquinanti». Dal 2014 a oggi qualche passo in avanti è stato fatto. «Ma non sono bastati. E anche la politica locale non si può sottrarre dalle proprie responsabilità – ha sottolineato l’ambientalista – perché le comunità sono sempre state tenute sotto il ricatto occupazionale del polo petrolchimico. Mentre – ha concluso – negli ultimi quarant’anni la tutela dell’ambiente e della salute non sono state tenute in considerazione».
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