Quando si schematizza la funzione dell’Università si dice che essa svolge processi produttivi di formazione e processi produttivi di ricerca. Si tratta di una schematizzazione necessaria: altrimenti sarebbe molto difficile misurare il prodotto dell’Università e soprattutto sarebbe molto difficile valutarlo. E sarebbe anche molto difficile stabilire come spendere i soldi. Da qui la necessità di contare il numero dei laureati, sia pure con qualche ponderazione, di contare i brevetti, gli spin-off, gli accordi di collaborazione, di calcolare tutti gli indici bibliometrici disponibili, insomma di fare tutto ciò che è necessario per capire se il prodotto formativo e scientifico dell’Università giustifica la massa di spese sostenuta. In questo delirio efficientista si potrebbe perfino sperare che tutto abbia un valore di mercato, così che non sarà neanche necessario fare i calcoli poiché sarà il mercato a farli.
Ha a che fare tutto questo con il giornalismo universitario? Direi di sì, perché il giornalismo universitario è uno di quegli esempi di attività formativa che producono effetti non solo sui destinatari diretti, ossia gli studenti, ma anche sulla comunità che sta fuori dell’Università. Questo fatto può essere fonte di imbarazzo quando si pone mano alla misurazione del prodotto dell’università. Infatti, finché il prodotto è chiaramente associabile ad un destinatario la misurazione è un’operazione possibile: è come se il prodotto fosse scomponibile in porzioni. Ma quando questa scomposizione è impossibile perché il beneficio arrecato è un beneficio diffuso, ed è questo il caso di un giornale universitario che abbia anche la funzione di informare la città oltre a quella di essere un laboratorio didattico per gli studenti, la misurazione diventa pressoché impossibile a meno che non si voglia chiedere a tutti i beneficiari del servizio, già difficili da identificare, quanto sarebbero disposti a spendere per quel servizio se esso non esistesse già. Occorre notare che non si tratta di una difficoltà di natura meramente tecnica: la difficoltà di misurare i benefici arrecati implica la difficoltà di far pagare (non necessariamente in termini monetari) qualcuno per quel beneficio. E questa è una implicazione assai sgradita a tutti quegli organi che hanno il controllo di risorse da spendere. In questo quadro, pertanto, il giornalismo universitario non ridotto a laboratorio didattico è un’attività priva di alcun interesse, anzi decisamente pericolosa poiché provoca effetti incontrollabili.
Il giornalismo universitario dunque, ma anche altre attività con caratteristiche simili, mal si adattano ad una idea di università contrattualizzata, ossia una università in cui tutte le prestazioni vengono inserite in un ipotetico ‘contratto’ che ha sempre due parti: da un lato l’Università, dall’altro, a seconda dei casi, gli studenti, le imprese, gli enti di ricerca, le altre istituzioni. In questa prospettiva la funzione pubblica della università si affievolisce, perché il rapporto negoziale tende a sostituire l’obbligo di legge. Ciò può apparire un passo verso la modernità e la sana efficienza economica; in verità può diventare un passo verso la marginalità.
Nel complesso rapporto tra diritto ed economia è bene che nessuno dei due termini della questione sia interamente sottoposto all’altro. Il primato dell’uno sull’altro porta inevitabilmente al disastro economico e politico. La crisi economica di questi mesi deriva proprio da un malinteso primato della economia sul diritto. Un giornalismo universitario ridotto a mera prestazione contrattuale nel rapporto ‘privato’ tra università e studenti è un esempio di cattivo primato della economia sul diritto. L’Università deve avere, e presidiare con lo strumento del diritto, spazi pubblici sia nella formazione sia nella ricerca. Questi spazi non possono essere contrattualizzati; devono essere spazi di frontiera in cui, all’interno di un quadro di regole, ognuno sia libero di esprimersi. È solo dall’esercizio di questa libertà, che solo il diritto può garantire, che può derivare l’innovazione culturale, politica e scientifica. Possono gli organi di governo di un ateneo rinunciare a rendere fruibili questi spazi? Se lo facessero tradirebbero la missione stessa dell’università
*Maurizio Caserta è professore ordinario di Economia politica e insegna “Economia dello sviluppo locale” presso la Facoltà di Economia dell’Università di Catania.
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