Gianni Palagonia, sbirro antimafia invisibile La divisa gli ha cambiato la vita

Avrebbe potuto continuare a fare il rappresentante di medicinali, guadagnare un sacco di soldi e fare una vita tranquilla. Invece, ha deciso di fare lo sbirro e rompere le scatole a più di un malavitoso. Risultato? E’ stato costretto ad abbandonare la Sicilia, trasferirsi al Nord e a  divorziare.  Si è pure ammalato.

Questa è la storia di Gianni Palagonia, poliziotto antimafia, che ha scritto due libri: Il Silenzio e Nelle Mani di Nessuno – editi da Piemme – e che mi ha concesso questa intervista. Un tipo parecchio tosto, Gianni, catanese, che, tra l’altro, non ha mai voluto cambiare identità.

Signor Palagonia, da dove nasce questa passione, anzi ostinazione, per la divisa, che le ha spezzato buona parte degli affetti più cari e le ha tolto la serenità?
Provengo da una famiglia benestante. Ero il classico figlio di papà firmato dalla testa ai piedi. Come ho scritto nel mio romanzo Il Silenzio, sin da piccolo mi sentivo attratto dalla divisa e, anche grazie ai valori trasmessi dalla mia famiglia, detestavo tutte le persone che vivevano di malaffare. Certo, potevo fare il rappresentante di medicinali, come mio padre, e vivere da ricco. In effetti, in attesa della convocazione per la scuola di Polizia, collaboravo con mio padre, il quale, mi stava instradando nel suo campo lavorativo, con il desiderio di farmi desistere dal mio intento. Con lui guadagnavo circa un milione e duecentomila lire al mese. Il mio primo stipendio in Polizia fu di circa 400 mila lire. La passione è nata sin da piccolo. Certo, l’aver avuto uno zio poliziotto mi ha aiutato a capire ancora di più quale doveva essere la mia strada.

Da quanto tempo fa il poliziotto e qual è stato il suo primo incarico?
Lavoro da oltre trenta anni. La mia prima destinazione dopo il corso è stato un Commissariato di periferia di Roma. Lì ero addetto al servizio di piantone alla Caserma. E poi, tanti altri incarichi, come il piantonamento ai detenuti ricoverati in ospedale, vigilanza nelle Ambasciate e la pattuglia sulla volante. Dopo nemmeno un anno sono riuscito ad andare alla “narcotici” Squadra Mobile di Roma.

La missione più tosta?
Di missioni ne ho fatte così tante in oltre trenta anni che definire la più tosta in assoluto è un’impresa ardua. Mi sono occupato per molti anni della ricerca di latitanti mafiosi, come delle Nuove Brigate Rosse. Sicuramente quelle più complicate riguardavano la ricerca dei latitanti a Catania, un’indagine politica scaturita a seguito delle stragi di Falcone e Borsellino e poi, lo smantellamento delle Nuove BR, per intenderci quelle che avevano ucciso i professori D’Antona, Biagi e il mio collega Petri.

Da chi ha avuto sempre sostegno?
Nel mio lavoro sono stato aiutato da tanti bravi e preparati colleghi e funzionari, che ho incontrato sulla mia strada.

Da chi le più grandi delusioni?
Sono stato deluso da tanti colleghi e funzionari che ho trovato sulla mia strada.

Torniamo alle Nuove Br. La soddisfazione più grande?
L’aver contribuito in maniera determinante ad intuire che una delle persone oggetto di indagini, per intenderci il probabile terrorista che poteva aver effettuato la telefonata di rivendicazione dell’omicidio Biagi, di fatto non c’entrava nulla. Era un assiduo frequentatore di un noto centro sociale, i suoi amici idem. Aveva quel tipo di precedenti penali che spesso, per molti, sono stati propedeutici alla lotta armata.Tutte le circostanze portavano a lui. Alla fine abbiamo accertato che si trattava incredibilmente di una serie di fortuite coincidenze. Per come stavano le cose era più facile dimostrare che poteva essere colpevole che tentare di dimostrare il contrario. Lo abbiamo seguito per due lunghi mesi 24 ore su 24. Se io ed i miei colleghi avessimo lavorato male, senza passione, senza la scrupolosità che ci contraddistingueva, un innocente sarebbe potuto finire in carcere,  forse ancora oggi in attesa di giudizio. Chissà, magari in una giornata di scontri tra polizia e aderenti all’ala più estremista dei centri sociali, quel giovane sarà uno di quelli che aprirà la testa ad un poliziotto, tirandogli un sampietrino. In quel gesto c’è la sua realizzazione, la sua rabbia, la sua vittoria, ma non saprà mai che, magari, il poliziotto colpito, era uno di quelli che gli aveva cambiato la vita, evitandogli il carcere e di vivere l’odissea mediatica del terrorista.

Ha avuto paura?
Chi non ha paura quando sta sulla strada e non sa se sta procedendo al controllo di una brava persona o di un boss latitante, che non ti dà nemmeno il tempo di tirare fuori la paletta che già ti ha sparato?

Perché la lotta alle nuove Br è stata vinta e la mafia è invincibile? Quanto è interessato lo Stato a combatterla davvero?
La mia idea è che la mafia si può tentare di sconfiggerla solo se si riesce ad impoverirla veramente. Un mafioso senza soldi non è nessuno. Certamente sarà difficilissimo annientarla, finché rimane legata alla politica. Le BR i politici li ammazzavano, ed allora facevano paura. Certo, c’è anche da dire che il numero di persone appartenenti alla criminalità mafiosa é di gran numero superiore a quello delle BR. Ma nel caso delle BR ci fu un’affermazione più forte dello Stato solo dopo l’uccisione di Moro.

Ci sono stati periodi in Italia in cui lo Stato ha avuto in apparenza la meglio sulla mafia. Ma a quale prezzo?
Lo Stato ha avuto supremazia territoriale sulla mafia dopo le stragi siciliane. I mafiosi hanno capito che lo Stato poteva tenere loro in qualche modo testa, ed allora hanno adottato la strategia dell’inabissamento.

Cioè?
Non facendo più parlare di loro, evitando azioni clamorose e prediligendo, alle rapine e alle bombe, azioni meno visibili, magari al nord, dove si sono inseriti nel tessuto economico e sociale e dove hanno investito ed investono i loro capitali. In Italia, se non ci scappa il morto, le cose non si fanno. Ha sempre funzionato così.

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[Foto di courgettelawn]

Redazione

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