Ma di che è fatta, in fin dei conti, una squadra di calcio? Non ditemi, per favore, che è fatta di giocatori. Sarebbe una risposta banale, e per giunta sbagliata. Se una squadra fosse fatta semplicemente di giocatori, infatti, risulterebbe tutto abbastanza semplice. Se per mezza stagione devi mandare in campo gente lenta e compassata, tenuta insieme soltanto dal misero orgoglio di un tempo che fu; se hai a disposizione null’altro che un’aristocrazia senatoria compiaciuta di se stessa, inutilmente nervosa, che sciorina una litania di giocate improduttive e per di più perde sempre fuori casa; se questi senatori, in fin dei conti, sono buoni soltanto a collezionare figuracce, ammonizioni, cartellini rossi, squalifiche; a un certo punto puoi decidere di mandare a casa la casta e ingaggiare al suo posto una centuria di giovanotti grintosi e adatti a interpretare un altro calcio. Un calcio che quando occorre sappia essere plebeo, veloce, aggressivo, affamato e non compiaciuto, un calcio che entusiasmi e sappia tenere i nervi saldi. Più o meno, per capirci, il calcio espresso dal Catania nelle sue prime partite al Massimino dopo il mercato di gennaio.
Solo che poi capita che gli stessi intraprendenti ragazzi che, nelle loro prime uscite, ti avevano illuso che i mali della squadra se ne fossero andati insieme ai precedenti interpreti, vanno a giocare fuori casa e rimediano figuracce identiche a quelle dei loro predecessori. Capita che li rivedi al Massimino, in una partita da vincere per forza, in cui da loro ti aspetti la reazione leonina di un animale ferito. E invece eccoli lì a vegetare in campo, regalando passivamente i tre punti al Frosinone e accompagnando con una smorfia di impotenza il proprio precipitare all’ultimo posto in classifica. Li vedi subire passivamente il loro destino e ti chiedi: ma di che è fatta una squadra di calcio se, per cambiarla, non basta neppure cambiare tutti i giocatori?
Perché a questo punto, fermo restando che l’attuale allenatore, al quale pure vogliamo tutto il bene possibile, non sembra granché abile ad aggiustare le partite quando queste si mettono male; fermo restando questo, ti chiedi se anche l’allenatore c’entri qualcosa, posto che, con i tre tecnici succedutisi in questa stagione – Sannino, Pellegrino, Marcolin –, i limiti della squadra sono risultati invariabilmente gli stessi. E che anzi, a ben pensarci, alcuni di questi limiti, per esempio la quasi assoluta incapacità di vincere in trasferta, perdurano da diversi anni e sono praticamente risultati endemici, a prescindere dai giocatori che via via sono andati in campo e dagli allenatori che si sono succeduti sulla panchina. E ti chiedi allora se ci sia qualcosa di più profondo – un virus nascosto nell’erba di Torre del Grifo, qualche atavica mavarìa, quella crudeltà del clima che condanna i siciliani al sonno di cui ci parlava il principe di Salina – che si attacca alla pelle di chiunque indossi la nostra maglia, costingendo anche i calciatori più giovani e dinamici alla triste metamorfosi cui abbiamo appena assistito.
Ci resta appena una speranza, e temo sia proprio l’ultima. Ossia che basti mandar via adesso, che siamo giunti a marzo, il calamitoso professor Ventrone, perché la squadra, affidata a un nuovo preparatore atletico, riacquisti la salute nel giro di quarantott’ore. Una speranza che sarebbe apparsa assai più solida se Ventrone fosse stato licenziato per tempo; giacché – posto che le idee, anche nel calcio, devono camminare sulle gambe degli uomini – non c’era ragione di insistere tanto a tenersi in casa il guru degli acciacchi muscolari, il profeta dell’acido lattico, il ventrone molle del nostro malconcio organismo societario. Via Ventrone, dunque: è notizia di stanotte, e sappiamo già che il suo successore si chiama Massimo Neri. Ma, dovendosi giocare appena martedì prossimo a Bari, non è notizia che abbia tempo per farci sorridere.
Anche perché sembra di assistere, ormai, a quel gioco che si fa nelle piazze di paese – la pentolaccia, si chiama – in cui un uomo bendato tira all’aria colpi di bastone cercando di colpire una sagoma appesa in alto. Stavolta il colpo è arrivato alla figura che rappresenta il professor Ventrone, e la prima cosa che vien da pensare è che ci abbiamo solo perso tempo. Ma che licenziare oggi Ventrone equivalga a mandare in frantumi tutti i mali del Catania è una speranza che, a questo punto, non mi sento più di coltivare.
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