Si chiamano vitrarolo, lucignola, nocera, rappresentano il passato remoto dei vitigni siciliani, sono le uve che si coltivavano sull’Isola centinaia di anni fa, ma forse sono anche il futuro del settore vitivinicolo della Sicilia. Ne sono convinti gli artefici del progetto BiViSi, acronimo che sta per biodiversità vinicola siciliana, che vede tra le sue fila il consorzio di tutela vini Doc siciliani, i docenti dell’università di Palermo, quelli dell’università di Milano e diverse aziende leader nel settore vitivinicolo siciliano. Un progetto della durata di 34 mesi, partito nel settembre del 2022, all’indomani della pandemia e che ha già prodotto risultati sorprendenti con le prime vendemmie. Soprattutto però, in un momento di profonda crisi del settore, dovuta in larga parte anche al cambiamento climatico, potrebbero rappresentare la cura, trattandosi di vitigni che hanno resistito nei secoli e che potrebbero risultare più performanti a condizioni di clima avverso e più refrattarie a certi parassiti che martoriano le colture.
«In parte si tratta di recuperare delle informazioni del passato e adattarle alle nuove situazioni, approfondendo le indagini sul piano scientifico – racconta Maurizio Gily, agronomo e docente dell’università di Palermo, innovation broker del progetto BiViSi – Alcune di queste salvate dall’estinzione, sopravvissute al diluvio della fillossera, che rischiavano di essere perse e di cui si stanno scoprendo qualità molto interessanti per il mondo attuale e per il gusto attuale. E queste sono solo alcune delle varietà siciliana. È importante riuscire a fare un ragionamento sulla biodiversità, avere una base genetica ampia è come investire in fondi diversi per mitigare il rischio. Avere pochi mezzi a disposizione può essere limitante, averne molti offre qualche prospettiva in più e in questo caso la Sicilia offre tantissima biodiversità».
«Questi vitigni sono la testimonianza del ruolo che la Sicilia ha avuto nell’evoluzione del comparto vitivinicolo e sono una testimonianza dell’importanza che la viticoltura ha avuto in Sicilia, frutto di un lavoro di selezione fatta nel tempo dai viticoltori siciliani – aggiunge Rosario Di Lorenzo, docente Unipa e presidente dell’accademia italiana della vite e del vino – Sono diventati reliquie perché forse presentano caratteristiche che in un certo momento storico non erano di particolare importanza per gli imprenditori, ma oggi rappresentano elementi di tipicità per la cultura siciliana. Ci raccontano una storia importante, in alcuni casi sono stati recuperati da pochissime piante, spesso riscontrate in zone in cui la viticoltura non è neanche più diffusa».
Nei giorni scorsi sono stati presentati i primi risultati della sperimentazione da parte delle aziende vitivinicole che hanno aderito al progetto, che è stato finanziato dall’assessorato regionale all’Agricoltura, con fondi del Psr 2014-2020. E i vini ottenuti sono anche buoni. «Alcuni vini sono già ampiamente testati sul mercato – prosegue Gily – quelli più rari, che vengono da vitigni reliquia, devono ancora affrontare veramente il test del mercato, finora sono stati assaggiati da panel di degustatori esperti e il responso è stato interessante. Si tratta di vini dalla forte identità, non somigliano ad altri e questo è un punto di forza importante e poi sono gradevoli».
«Si tratta di un progetto innovativo, perché riscopre il passato, ma stiamo studiando dei biotipi che tendono a differenziarsi rispetto al conosciuto – dice infine Onofrio Corona, coordinatore del corso di laurea in Viticoltura ed Enologia del polo di Trapani dell’Università di Palermo – Uno studio che viene effettuato in ambienti diversi per valutare le qualità delle uve e dei vini ottenuti. L’innovazione sta nell’introdurre tecniche che possano esaltare aspetti legati alla varietà dei vini».
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