Due incontri sulla violenza di genere a distanza di pochi giorni. Stesso tema, ma impostazioni fortemente diverse per il convegno di sabato alla biblioteca Ursino Recupero e quello di stamattina al cortile Platamone. In entrambe le occasioni, però, i protagonisti sembrano essere stati gli uomini. «Nel caso del convegno di sabato organizzato da una onlus legata alla Massoneria catanese si è trattato, a mio avviso, di un evento che ben poco ha a che fare con le questioni di genere – commenta Stefania Arcara, docente di Gender Studies dell’università di Catania -, se si eccettua l’intervento della giornalista Cristina Obber, la cui presenza in questo contesto mi ha sorpresa. I contenuti del suo intervento erano in netto contrasto con l’impostazione dell’evento, dove, come in un gioco di prestigio, si è assistito a una ri-semantizzazione del termine genere nel senso di genere umano: ha prevalso la retorica dell’Uomo e del maschile neutro universale e la costruzione del femminile come vittima». «Trovo che non abbia alcun senso civile, politico e culturale che un’associazione che esclude le donne (la massoneria, ndr) parli di violenza di genere», le fa eco Emma Baeri, storica femminista e femminista storica. Diverso, per Baeri, è invece il caso dell’evento di stamattina. «Mi ha colpito l’intervento di Domenico Matarozzo, dell’associazione Maschile Plurale – spiega – Ha fatto esplicito riferimento al femminismo, parola da cui molti e molte ormai vogliono tenersi distante, e ha raccontato come nel loro gruppo si utilizzino le pratiche politiche femministe: dall’autocoscienza all’analisi della sessualità maschile perché, ha detto Matarozzo, quella di genere è una questione che riguarda tutti, non solo le donne».
Del convegno di sabato e del suo inusuale tavolo di relatori – quasi tutti uomini, tra massoni, docenti, medici e un armiere – si era già parlato. «Ho voluto dare un taglio più complesso alla tematica e non fare parlare soltanto lo specialista», spiegava Katerina Papatheu, docente di Greco moderno di Unict e moderatrice dell’incontro. Che a MeridioNews aveva dichiarato di non credere «alle questioni di gender. Ogni violenza è verso l’identità di un individuo, che sia uomo o donna». Un’impostazione che sarebbe emersa negli interventi dell’incontro. «Le donne sono una delle tante categorie deboli da soccorrere, destinatarie di beneficenza e carità – continua la sua analisi Stefania Arcara – Nessun riconoscimento dei centri anti-violenza e delle persone competenti che ci lavorano, nessuna analisi delle cause del fenomeno, ridotto a un neutro problema di rapporti umani. Tralasciando l’ameno paradosso di un venditore di armi che parla a un convegno sulla violenza, credo che si sia avverato quanto da me già denunciato un anno fa, in occasione dell’intitolazione dell’aula A2 dell’ex monastero dei Benedettini a Stefania Noce, a proposito dei rischi di strumentalizzazione delle questioni di genere nel discorso pubblico». Presente all’evento anche l’assessore alla Cultura Orazio Licandro, «che ha portato i saluti del sindaco e ci ha rassicurato che l’attuale amministrazione è sensibile a questi temi – continua Arcara – Come dimostra, a suo dire, il provvedimento sulla censura delle pubblicità sessiste, al quale la mia contrarietà è nota. La realtà però è che, mentre il Comune intende coprire qualche corpo femminile, i centri anti-violenza sono a rischio chiusura, in attesa perenne del bando per i finanziamenti. E ogni giorno sfuma la possibilità, spesso vitale, per tante donne di allontanarsi dagli uomini violenti».
E se dei centri antiviolenza non c’era traccia nell’incontro di sabato, l’associazione Thamaia era invece tra i protagonisti dell’evento di questa mattina al cortile Platamone. «La mia impressione è che in questi centri ci sia un gran bisogno di femminismo, di ritrovare le proprie origini – commenta Emma Baeri – Spesso il bisogno appiattisce il rapporto operatrice-utente, due donne, sull’aspetto tecnico della questione. Servirebbe invece tornare a fare un lavoro su stesse, sulla complicità che ognuna di noi ha con la violenza sessuata». Un fenomeno diverso dalla violenza sessuale – quella fisica, «che fa più rumore mediatico» – e che va dalla divisione dei lavori in casa all’agenda politica delle istituzioni. «Le stesse istituzioni che – continua la storica – demandano una questione maschile alle donne, ma che non le mettono in condizione di lavorare, lasciando i centri senza soldi». A emozionare Baeri è stato il video proiettato nel corso dell’incontro. Cinque storie di «vita quotidiana di coppie in cui si delineava uno scenario di violenza morale che poteva sfociare in violenza fisica – racconta – A un certo punto, la donna protagonista di ciascuna storia opponeva una resistenza, lui si fermava e cambiava atteggiamento. Alla fine di ogni episodio venivano poi date delle indicazioni, con mitezza, per affermare come rispettare le donne o capire le ragioni del loro lavoro fosse “una cosa da uomini“». «Con questo video ho provato un’emozione simile a quando vedo delle immagini degli anni Settanta, che io ho vissuto – conclude Baeri – Ci ho visto una rivoluzione che potrebbe nascere, anche se forse non con l’ampiezza della nostra. Perché noi donne in questa rivoluzione potevamo perdere solo le nostre catene; loro invece, gli uomini, avrebbero da perdere le poltrone. Ed è più difficile».
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