Via D’Amelio, la ritrattazione confessata al giornalista «Io non sono mai stato sentito in un’aula di giustizia»

«Io non sono un pentito vero. A Pianosa mi hanno costretto, facendomi urinare sangue». Stralci, frasi, frammenti della telefonata che Vincenzo Scarantino, il finto pentito della strage di via D’Amelio, fa la mattina del 27 luglio 1995 al giornalista Angelo Mangano. Che, lo sa bene da subito, raccoglie – tra le tante – la ritrattazione più clamorosa del ragazzo. Che in fondo conosceva già da tempo, da molto prima che quella 126 saltasse in aria il 19 luglio di due anni prima. «Io sono uno del quartiere. Meglio, io nasco e sino a una certa età vivo tra via Oreto, Brancaccio e la Guadagna. E Scarantino lo conosco», racconta il cronista alla Commissione parlamentare antimafia, presieduta da Claudio Fava, che chiede di ascoltare quella storia. «Vincenzo Scarantino, Enzuccio Scarantino, lo conosco. Lo conosco perché? Perché da lui si vanno a comprare le sigarette di contrabbando. Lui a piazza Guadagna … si metteva lì, con un banchetto fatto di cassette per la frutta, a vendere le sigarette di contrabbando … Candura è un altro che conosco. È un ladro di auto. Valenti è il figlio di uno che noi chiamavamo gli spazzini. Una famiglia numerosissima, che abita in un pianterreno di queste case popolari … Quindi, tutto tranne persone di un certo spessore criminale. Sicuramente non gente che organizza una strage».

Non ci vuole, insomma, Gaspare Spatuzza con le sue dichiarazioni per minare la credibilità di Scarantino come picciotto stragista. Non serve aspettare quel 2008, per avere anche solo il dubbio, il sentore. E quanto accade quella mattina di 23 anni fa non era che il principio della sua attendibilità inesistente. Per avere qualcosa di veramente concreto tra le mani basta davvero poco. Per esempio una troupe e un registratore, quelli con cui Mangano decide di andare nel cortile Buonafede, alla Guadagna. Cioè a casa Scarantino. «Mi riceve la madre … E questa signora mi racconta che il figlio aveva chiamato al telefono di casa, aveva detto che lui si era inventato tutto, che non era vero nulla, che aveva accusato delle persone innocenti (le stesse che da condannati vestono oggi a Caltanissetta i panni di parti offese nel processo per calunnia contro tre poliziotti che contribuirono alla creazione del falso pentito …ndr), e che aveva voglia di andare in galera, di non fare più il pentito». Basterebbe questo, forse, per vacillare un po’. L’impianto accusatorio invece da quel momento a seguire non si sposterà d’una virgola, mentre la credibilità del collaboratore rimane nel tempo incredibilmente integra.

Mangano non fa in tempo ad arrivare alla sede Mediaset in via Ugo La Malfa che lo chiama al cellulare Scarantino, che gli dice quanto aveva già sentito dalla madre, alla Guadagna. «Io gli dico “scusi ma allora perché tutto questo?” – racconta in Commissione – “Perché mi hanno costretto a farlo. A Pianosa mi torturavano, volevano che io dicessi quello che mi suggerivano, quello che mi dicevano». Ma chi è che lo costringe, con sevizie e torture? «Arnaldo La Barbera» risponde Scarantino. Nemmeno il tempo di riattaccare e spegnere il registratore, che il telefono squilla di nuovo. Ma questa volta è il centralino della questura. Mangano capisce subito, sa che lo cercano perché hanno capito, sanno della ritrattazione. Lo cercano negli studi, ma anche a casa. «La mattina successiva scendo per tornare al lavoro e il portiere mi ferma e mi dice: “Ieri pomeriggio sono arrivate delle persone, si sono qualificate come poliziotti però non mi hanno fatto vedere nulla… hanno fatto domande su di lei, su sua moglie, dove insegna sua moglie… Dove vanno i bimbi a scuola…”».

È il 28 luglio, il giorno in cui, senza esibire nessun documento o mandato, che di fatto ad oggi risulta introvabile per non dire inesistente, due poliziotti sequestrano nella sala montaggio di via La Malfa ogni traccia di quella registrazione. Mentre nel frattempo la procura di Caltanissetta invia all’ufficio legale a Milano un’ordinanza dove si chiede di eliminare tutto dai nastri e dai server. Anche se un tecnico disubbidiente di Milano, ma siciliano, sente che dietro quella richiesta c’è qualcosa che gli puzza e conserva una copia del servizio di Mangano andato in onda il giorno prima nell’edizione pomeridiana. Un racconto, che già così, ha dell’incredibile. «No, io non sono mai stato ascoltato in un’aula di giustizia», aggiunge alla fine Mangano. Significa che questo racconto non lo raccoglie mai, nell’arco di 26 anni, nessun giudice, magistrato, avvocato. Nessuno. Lo restituisce, nel tempo, lui stessi ai colleghi, agli amici, e pochi mesi fa alla Commissione presieduta da Fava.

Tutto falso, Scarantino ha mentito, è stato solo uno sfogo. Per i magistrati dell’epoca quella non era una vera ritrattazione. «Qualcuno lo costrinse a ritrattare», disse il sostituto procuratore di Caltanissetta Carmelo Petralia, che ai cronisti del Giornale di Sicilia commentava che si era trattato solo di «assurdità, di storie campate in aria, che non hanno alcun senso, alle quali non si deve dar credito». Una versione che, in qualche modo, seppure smussata, sembra sposare ancora oggi. «C’erano dei punti delle dichiarazioni che erano attendibili – risponde a Fava -. Si poteva anche accettare di dare valenza probatoria alla parte non inverosimile e riscontrata. Se veramente Scarantino non c’entra niente – sembra dubitare ancora oggi Petralia -, il fatto che lui abbia reso vari elementi di verità ci deve fare pensare che ovviamente gli sono stati forniti. Il punto è che li ha forniti, li ha forniti perché a sua volta li aveva, questo è quello che adombra la sentenza….».

Silvia Buffa

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