Via D’Amelio, confronto in aula fra Germanà e Rossi «Non ci fu alcuna pressione, solo ovvie sollecitazione»

La lunga carriera nelle forze dell’ordine – dal 1979 al 2015 -, le indagini sulle pressioni per manipolare il verdetto del processo sull’omicidio del capitano dei carabinieri Emanuele Basile e il coinvolgimento del parlamentare trombato di nome Enzo di area manniniana, il rapporto con Paolo Borsellino, la retrocessione a Mazara del Vallo, l’attentato del 14 settembre 1992. Ha ripercorso con scrupolo, pazienza e a tratti con emozione tutto questo Calogero Germanà, l’ex questore in pensione ascoltato questa mattina dai giudici di Caltanissetta al processo a carico dei poliziotti Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo, accusati di calunnia aggravata. Di aver avuto un ruolo, in qualche misura, nella vestizione del pupo Vincenzo Scarantino e nel depistaggio delle indagini su via D’Amelio. «Ho salutato Borsellino lunedì mattina, e mi sono presentato alla questura di Trapani come dirigente, per la seconda volta. Lui mi disse all’epoca “poi ne parliamo”. era il 4 luglio, era impegnato nel saluto di commiato alla procura di Marsala», ma un mese dopo lui muore nella strage. Germanà è uno dei funzionari di cui il magistrato si fida di più, era stato proprio lui a rivolerlo a Palermo, alla Criminalpol. E poi quello strano trasferimento al commissariato di Mazara del Vallo.

«Il destino ha il suo corso, se uno lo vuole cambiare sbaglia secondo me – commenta Germanà -. In un precedente incontro, al tribunale di Palermo Borsellino mi aveva detto che non condivideva questo mio trasferimento». Rispetto al quale solo dopo dieci anni avrebbe saputo che era stato dovuto a un magistrato che aveva detto che lui ero colluso con la mafia. «Ormai è passato tutto, non interessa a nessuno. Neanche a me». Un’illazione cui non seguì mai neppure alcuna indagine. Mentre intanto la mafia a lui si avvicina davvero, ma non per corromperlo ma per farlo fuori: «Sono miracolato, non capisco perché altri siano morti e io no. Mi sono salvato per la mia prontezza di riflessi – racconta -. Loro l’avevano così organizzata, facciamo un po’ di cinema: avevano messo un signore, Vincenzo Sinacore, come vedetta e si era attestato in un palazzo che aveva la visuale perfetta sul commissariato. Poi avevano messo Bagarella, Graviano e Messina Denaro che stavano su una macchina, una Fiat Tipo rubata un mese prima, e una macchina col gioielliere Geraci di Castelvetrano a supporto. E altri li aspettavano alla fine di Tonnarella, perché dovevano prendere le armi, le macchine e bruciarle. Ma siccome io dormivo una volta a casa mia, una volta da mia suocera, una volta a mare, non mi individuavano bene. Allora hanno deciso di farlo di lunedì, come alla posta. Verso le due torno a casa e avevo un motorino, sto per andare via, mi chiama il mio autista e mi dice che dovevamo andare a Trapani nel pomeriggio».

«Decidemmo di portarci due macchine da lasciare poi dal meccanico. Io ero solo e l’autista era sull’altra auto. Lasciai il mio motorino a un agente che doveva fare un servizio di osservazione e prendo una Panda con le pastiglie del freno difettose – continua a raccontare -. Piano piano mi sono avviato verso casa, visto che non frenava bene. Quando ero sul lungomare sento il rombo di una macchina in accelerazione, questa Fiat Tipo, io ero sovrappensiero, un po’ stanco. Guardo allo specchietto retrovisore e sembra che questa auto mi voglia puntare. Non ho il tempo di pensare “ma che fa questo”, che vedo dal finestrino uno che si sporge con un fucile e mi spara, boom. Riconosciuti? Ma come si riconoscono in questi momenti? La macchina va un po’ più avanti e si ferma, vedo che fa la retromarcia e allora io scendo dalla macchina e sparo. Vedo che sono fermi, scavalco il muretto di contenimento sulla spiaggia, ci guardiamo, io parlo in dialetto catanese, dico brutte parole, questi non sanno che fare ci ripensano e ritornano facendo inversione di macchina. Chi stava dietro nella macchina e aveva il kalashnikov inizia a sparare, ma spara a colpo singolo, io li sento e mi muovo. Son sempre lì che li guardo con la pistola, chiedo aiuto, ma c’era un silenzio tombale, come se il tempo si fosse fermato. Se ne vanno di nuovo. Ma forse gli bruciava che non c’erano riusciti. Delle signore in acqua intanto mi gridavano di buttarmi a mare. Loro hanno fatto di nuovo inversione di marcia e stavolta tirano a raffica. Io mi sono accovacciato, poi riemergo leggermente, ci guardiamo ancora, non scendono dalla macchina, forse hanno avuto paura, vedono che mi hanno solo ferito alla testa e vanno di nuovo via. E così è finito l’attentato, è durato un po’ un signore coraggioso mi ha fatto entrare a casa sua per farmi rifugiare e da lì ho chiamato aiuto».

Il mandante è Totò Riina, gli esecutori materiali Giuseppe Graviano, Leoluca Bagarella e Matteo Messina Denaro. Più altri compartecipi. Prima di quel tentativo di attentato, Germanà era stato appunto impegnato nell’indagine sulle presunte pressioni per manipolare il verdetto del processo sull’omicidio di Basile. Viene per questo convocato in estate a Roma al ministero dell’Interno. Ed è su questo punto che in aula oggi è stato deciso un confronto a tu per tu fra lui e Luigi Rossi, all’epoca prefetto. «Non sapevo di cosa dovessimo parlare, mi ricordo che ero in macchina con due ispettori quando ho ricevuto la telefonata di Rossi che mi chiedeva di andare subito da lui – dice Germanà -. Alle 16.30 ero dal prefetto, non avevo con me nessuna relazione, non mi era stato chiesto niente. Alla domanda se ci fosse qualcosa sul ministro Mannino io risposi oralmente, ricordavo non ci fosse nulla su di lui, ma per sicurezza ho detto che avrei ricontrollato le carte e richiamato l’indomani mattina. Così ho fatto, niente di eccezionale». Ma il giorno dopo non serviva più nulla, il rapporto era già arrivato. Ma a chi? E da chi? «Forse gliel’avrà portata il questore Di Costanzo questa relazione, è una mia considerazione, ma non al prefetto Rossi, magari al ministero direttamente. Non lo so, non l’ho mai chiesto a Di Costanzo. Forse il prefetto si ricorda di un appunto del dottor Di Costanza, visto che era prassi, ma questo lo suppongo io».

Più sbiaditi i ricordi di Rossi che, sentito subito dopo Germanà aveva dichiarato con decisione di aver ricevuto invece una relazione proprio durante quell’improvviso incontro con l’ex poliziotto. Ma al confronto ecco che fa un passo indietro e la sua memoria vacilla: «Evidentemente c’è un cattivo ricordo, non posso smentire quello che dice Germanà, può darsi che si sia svolto tutto diversamente – replica -. Io ricordo di un documento, una relazione che chiesi e che lui mi portò e che io portai a Parisi. Può darsi che il mio ricordo è falsato. Potrebbe averlo portato qualche altro funzionario prima? Non lo so. Ricordo solo di aver interloquito con lui. Se mi dice di avermi riferito oralmente su Mannino, non ho che dare atto a quello che dice Germanà, la stima per lui non mi dà motivo di smentirlo. In quel periodo c’erano tante di queste attività, che potrei confondere una cosa con l’altra. Comunque quella copia di rapporto diretto alla procura non passò mai da me. Il mio ricordo è piuttosto lontano, confondo tante cose, e se n’è scritto tanto, ne ho letto tanto. Quello che dice Germanà per me è vangelo».

Rossi, prima del confronto, aveva sottolineato anche che non c’era stata «nessuna pressione all’allora dirigente della squadra mobile di Palermo Arnaldo La Barbera per l’immediata chiusura delle indagini per cercare di trovare i responsabili» della strage di via D’Amelio. «Era un’ovvia sollecitazione per la conclusione in un caso così clamoroso, si cercava di arrivare a una soluzione». E nega di essere mai stato a conoscenza di una collaborazione, in quell’indagine, con i servizi segreti. «Lo appresi dai giornali, non sarebbe stata una cosa normale». Come nega anche di essere stato a conoscenza, all’epoca, del trasferimento nel Trapanese di Germanà, «ignoravo questo aspetto, non me ne occupavo io».

Silvia Buffa

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