Non riesco, per quanto abbia tentato di farlo, a spiegarmi come un’istituzione come l’Università, il cui compito è la formazione, la ricerca scientifica e anche (sempre più oggi, alla luce dei più recenti orientamenti in materia di interazione istituzionale e porosità degli apparati detentori di risorse e società) la diffusione della cultura, attraverso la promozione ed il potenziamento del coinvolgimento di segmenti sempre più ampi di società, possa diversamente perseguire l’obbiettivo della contrazione dell’utilizzo delle biblioteche universitarie, fino al punto da interdirlo anche a quella fetta di operatori di fatto dell’università che sono i dottori di ricerca, gli ex assegnisti, gli ex docenti a contratto, i laureati che si preparano a sostenere gli esami di abilitazione alle professioni, quelli di accesso ai dottorati di ricerca, o altri concorsi per l’ingresso presso enti pubblici o privati.
Va da sé che a maggior ragione risultano esclusi tutti coloro i quali hanno interesse a tenersi aggiornati per partecipare a competizioni pubbliche o private, i liberi studiosi locali o visitatori, i ricercatori dilettanti, i direttori o membri di comitati di redazione di riviste scientifico-divulgative e simili. E ancora, i docenti delle scuole secondarie che volessero aggiornarsi per riversare nel proprio lavoro ulteriore sapere, i professionisti che volessero qualificarsi e/o aggiornarsi e che non si può richiedere che siano costretti a dover fare affidamento solo sulla propria capacità finanziaria d’investimento sulle fonti di informazione.
Ricordo un quasi amico, Memi Spataro, sempre assorto fra i volumi delle varie biblioteche anche universitarie di Catania, a ricercare sulla storia della palma nana dalla sua comparsa in Sicilia; Memi non era un ricercatore, ma un signore intelligente e raffinato che aveva alcuni liberi interessi culturali, che aveva potuto soddisfare da quando era andato in pensione.
Umberto Rodonò ed io, mentre svolgevamo la nostra lunga ricerca sull’architettura post-unitaria in Sicilia, incontravamo quasi sempre un signore che consumava i propri occhi nelle stesse biblioteche che noi frequentavamo: ha ricostruito quasi completamente l’elenco ed il numero dei locali sedi di teatri, cinema e simili che erano stati attivi a Catania in un arco di tempo di oltre un secolo e mezzo. Non si può dire che il risultato del suo lavoro sia un prodotto scientifico, ma di certo è un pregevole macroscopico lavoro di compilazione utilissimo a chi debba o voglia produrre un lavoro scientifico in un ampio ventaglio disciplinare nel quale questo genere d’informazione sia utile.
Oggi, dall’attuale compagine di governo del nostro ateneo tutto ciò viene impedito. Oggi il governo dell’Università di Catania ha espresso la propria linea di politica culturale anche in merito al ruolo dell’istituzione nel territorio: si possono fare solo le convenzioni fra i dipartimenti e gli enti pubblici e privati (chi ha il potere e la libertà per farli), si può esercitare il conto-terzi o l’intra-moenia (chi ha il potere contrattuale, commerciale e politico per farlo), ma non si può favorire l’osmotico passaggio libero di sapere, di cultura e anche solo d’informazione alla società del territorio, sede dell’ateneo ed anche oltre. Non può venire, ad esempio, un libero studioso straniero.
Mi è quasi venuto da ridere (se la tristezza e la preoccupazione per l’involuzione della nostra istituzione non avessero compensato) quando, per consentire ad alcuni di coloro che negli ultimi anni hanno avuto occasione di collaborare con me nella ricerca e nella didattica- come studenti di dottorato, come docenti a contratto, come volontari- di continuare a -sic!- potere entrare nella biblioteca della ex facoltà di Architettura, ho dovuto dichiarare per iscritto che collaborano alla didattica nei corsi e laboratori nei quali io insegno. Mi è venuto da ridere, perché siamo arrivati al paradosso di dover contravvenire a quel principio in grazia del quale chiunque lavori deve essere pagato (con tanta forza affermato dalle forze sociali progressiste da molti decenni, segnatamente dai sindacati), proprio per scongiurare il pericolo di riservare l’accesso al lavoro universitario a chi dispone di risorse che gli permettano di lavorare senza guadagnare, escludendo chi questo lusso non se lo può permettere.
Ma di sociale e di progressista i vertici della nostra Università di oggi hanno ben poco. Resta il pericolo del mansionario: ecco perché per un verso ridevo. Sarà questo il cavallo di Troia per risolvere il problema del precariato? Allora sono pronta ad avere e riconoscere per iscritto tutti gli esclusi meritevoli che ne avessero bisogno. Invito i colleghi a fare altrettanto. Chissà che un tribunale del lavoro non ci obblighi a reclutare prima o poi tutti quelli che risulteranno aver avuto certificata la collaborazione didattica e scientifica per un certo numero di anni, mesi e giorni!
Zaira Dato
[Foto di ialla]
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