«Partimmo con il rapido delle 8.30 e arrivammo intorno alle 13, con 60 minuti di ritardo. Allora ci volevano minimo quattro ore, in più di cinquant’anni non è cambiato niente». Era l’ottobre del 1960 quando il signor Biagio, catanese all’epoca diciannovenne, decise di regalarsi un viaggio a Palermo e il treno sembrò essere l’unica soluzione. «Eravamo in tre, l’intenzione era di concedersi una vacanza dopo la maturità, ci avrebbe ospitati un amico palermitano».
Per l’Italia dei tempi, i tre coetanei non erano ancora maggiorenni: «Ma avevamo preso la patente», ricorda Biagio. Eppure, l’idea di andare in macchina non era da prendere in considerazione, e non perché mancassero i mezzi: «La mia famiglia poteva contare su una 500 Giardinetta con sportelli di legno», racconta, ma il problema non sarebbe stato nemmeno quello di affidare a un neopatentato l’unico mezzo di trasporto del nucleo familiare.
Piuttosto, occorreva considerare che «la Sicilia degli anni Sessanta contava su una viabilità per niente sicura: il piano autostradale sarebbe partito più di dieci anni dopo e le statali dell’epoca rappresentavano l’unica via percorribile». Una via perigliosa, dunque, che nel 1960 era anche il percorso obbligato dei bus. «Prendere un pullman, allora, significava fare i conti con tempi troppo lunghi, senza contare le fermate. Da questo punto di vista, il treno cosiddetto rapido era la soluzione migliore».
Accanto al rapido, che si fermava solo nelle stazioni principali, – quindi «Enna e Caltanissetta lungo la tratta interna», secondo i ricordi di Biagio – le ferrovie siciliane mettevano a disposizione dei passeggeri un treno detto accelerato: «Di accelerato non aveva proprio nulla, considerato che faceva fermate a tutte le stazioni. Non saprei dire quanto tempo impiegasse per arrivare a Palermo, ma quello era il treno dei pendolari, anche perché risultava più economico».
Più economico e più frequentato, e quindi con più orari a disposizione durante la giornata. Con il rapido, al contrario, le corse erano «una o due al giorno», si trattava dell’ «equivalente dei Frecciarossa di oggi», spiega il catanese. I tre giovani vi trovarono, perciò, «solo gente poteva permettersi un biglietto più costoso: in massima parte professionisti degli uffici regionali di allora».
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