Un magazine universitario? Deve essere “sfrontato”

Proviamo ad immaginare che un bel mattino qualcuno venga da voi e vi proponga di fare un magazine per i giovani. Settimanale o mensile, fate voi, l’importante è che il pubblico di riferimento sia quello. A questo punto le strade che vi si aprono sono diverse: dire, grazie ho molto da fare, ci vediamo; cercare di capire cosa il vostro fantomatico editore ha in testa di realizzare; mettersi subito al lavoro puntando su una ricetta che raramente fallisce: sport, gossip, musica e costume. Oppure… oppure potete mettervi a pensare, coltivate i vostri dubbi, vi guardate intorno, state a sentire, organizzate un focus group per tirare fuori qualcosa di sensato. Comunque vada, una bella grana, non c’è che dire.

Proviamo ad immaginare di accettare la sfida. Diamo per scontato che quello che dobbiamo realizzare sia un giornale cartaceo. Non un magazine televisivo, né un sito internet. E qui potremmo avere le prime perplessità: perché limitarsi ad un giornale tradizionale e non pensare invece ad un prodotto più sofisticato, in grado di toccare corde diverse, pubblici non coincidenti, sensibilità più complesse. Parlare ai giovani, insomma, non solo attraverso le parole ma anche con le immagini, la musica, i suoni.

Ecco: se dipendesse esclusivamente da voi, forse, allarghereste il progetto. Un giornale multimediale o, forse più acutamente, moltimediale: non solo più mezzi, ma soprattutto mezzi diversi, ognuno con i propri linguaggi, i propri codici, ma strutturati in modo da creare un nuovo linguaggio, un nuovo codice, unico e molteplice. Televisione, radio, web e carta tutti insieme con un obiettivo comune, parlare alle nuove generazioni. Ed ecco che il percorso si fa più complesso, il cammino più accidentato. I nodi che immediatamente ci si trova a dover sciogliere sono almeno due: come parlare a questi giovani e, soprattutto, cosa dir loro.

Generazioni differenti, è cosa ovvia e risaputa, parlano lingue differenti. Oggi il divario si è, probabilmente, allargato ancora. Mentre prima, per molto tempo, erano proprio i linguaggi a mutare, oggi diventano i punti di partenza e di arrivo ad essere sempre più divaricati da una generazione all’altra. Un semplice esempio per provare a capire. Il mezzo che da quando è stato inventato è stato, in assoluto, impostato su voce e udito, il telefono, è diventato oggi lo strumento più comune di trasmissione di parole scritte. Se, fino a qualche anno fa, lo scenario era quello di persone che, grazie anche ai cellulari, si parlavano tenendo il telefono all’orecchio, oggi, osservando con attenzione, vediamo che i giovani, soprattutto i più giovani, non parlano al telefono, ma lo leggono. E proprio quando tutti si stavano avviando a celebrare la morte della parola scritta, quest’ultima è risorta dalle sue ceneri, creando, per l’appunto, un nuovo linguaggio, quello degli SMS. Più o meno qualcosa di analogo era avvenuto, in precedenza, con internet, la posta elettronica, i forum e le chat.

Un impoverimento della parola scritta, secondo molti, con la creazione di una lingua meno ricca e profonda. Un universo da esplorare con attenzione secondo altri. In ogni caso una realtà di cui non si può non tener conto. Un magazine per i giovani deve tener presente tutto questo, cercando di far convivere le necessità di una lingua più complessa e quelle dell’abitudine ad una lingua più immediata, permeata dai ritmi delle nuove aggregazioni caratterizzate dalla condivisione di interessi immediati e che si formano rapidamente e altrettanto rapidamente si sciolgono, quelle che Howard Reinghold ha definito smart mobs.

Un altro punto non secondario è che, al tempo stesso, mentre da un lato i giovani oggi si abituano ad una lingua via via più semplice e istantanea, dall’altro sono sempre più esigenti nei confronti delle immagini. Cresciuti a video clip e videogames, tra computer ed Mtv, non si accontentano del vecchio ritmo e della linearità del video, hanno negli occhi inquadrature, punti di osservazione che nascono dalla grafica per i giochi, dal fumetto, dalla pubblicità. Parole povere e immagini ricche. In definitiva, da questo punto di vista, l’impresa editoriale che ci accingiamo a cominciare appare subito decisamente impegnativa.

Per non scoraggiarci del tutto affrontiamo il secondo nodo, quello dei contenuti. E se prima siamo rimasti scottati, adesso rischiamo di trasformarci nel falò delle nostre azzardate speranze. Cosa abbiamo noi da dire a questa generazione? Moltissime cose, naturalmente, alcune delle quali fondamentali. Ma come possiamo provare a farci ascoltare? Come possiamo dare loro la chiave che porta alla curiosità del conoscere? Come trasformare una tendenza che in loro è innata – come lo era in noi, ricordate? – in una forza in grado di capire e spiegare?

Una ricetta perfetta, ovviamente, non l’abbiamo. Può essere interessante a questo punto riflettere su un fenomeno, che negli Stati Uniti è stato affrontato da John Seabroock, uno scrittore del celebre “New Yorker”. Seabrook ha descritto l’annullamento della distinzione tra alto/basso, élite/massa nel mondo socioculturale americano. E ha posto a confronto due esempi, da un lato il “New Yorker”, baluardo della cultura tradizionale basato sul confronto tra cultura alta e cultura bassa, e Mtv, protagonista della rivoluzione che ha de-gerarchizzato la cultura.

Per questo è stato introdotto un nuovo termine: nobrow. In America infatti c’è un modo molto colorito di definire le classi socio-culturali: highbrow, middlebrow e lowbrow. Una distinzione basata sull’attaccatura dei capelli. Fronte alta, fronte media, fronte bassa, con una metafora lombrosiana che lì ha avuto notevole successo. A scardinare questa gerarchia della fronte è stato proprio il nobrow, nessuna fronte, che ha dato vita ad una cultura, per l’appunto, sfrontata, il cui paradigma diventa proprio Mtv. Se nel “New Yorker” le contrapposizioni fondanti delle gerarchie culturali erano élite/commerciale, ovvero qualità, coerenza nelle preferenze culturali, contenuto contro pubblicità, in Mtv diventano cult/mainstream, autenticità, sconfinamento tra i livelli, contenuto e pubblicità.

In questo quadro non assistiamo tanto all’abbattimento delle gerarchie di gusto, ma al cambiamento di esse. Il passaggio forse fondamentale è quello che vede contrapposto il cult al mainstream, che vivono tra loro comunque un rapporto quasi osmotico, di vasi comunicanti. Quando il cult ha successo entra nell’orbita del mainstream. Ma è il primo ad avere in mano le chiavi del cuore delle nuove generazioni. Creando le condizioni per mettere al posto del vecchio concetto di qualità quello nuovo di identità, l’unico in grado di creare i presupposti per l’attenzione ed il successo. È questa, in definitiva, per ritornare al nostro punto di partenza, l’unica bussola che abbiamo a disposizione per portare a destinazione la nostra nave, il nostro compito.

Ma, come avevamo previsto, si tratta di un’impresa tutt’altro che facile. Per fortuna, a trarci d’impaccio, è, guarda un po’, proprio il telefono.
Niente paura, era solo uno scherzo. Ne riparliamo un’altra volta. 😉

[Articolo ripreso da “Bollettino d’Ateneo” 2004, n.3]

Enrico Escher

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