Turi Catania, da Bronte ai Nebrodi per i Santapaola Il pentito: «È tra i più affidabili che ho conosciuto»

«Turi Catania? Tra le persone più serie che ho conosciuto». Un endorsement come un’arma a doppio taglio, pronunciato senza giri di parole direttamente dall’ex capomafia Santo La Causa, dal 2012 diventato collaboratore di giustizia. Il protagonista del suo racconto ai magistrati della procura di Catania è Salvatore Catania, 55 anni, originario di Bronte, Comune di quasi 20mila abitanti alle pendici dell’Etna. Un presunto boss della mafia rurale, che ieri è stato fermato dai carabinieri in un’operazione antimafia che ha passato al setaccio i territori all’interno del parco dei Nebrodi. Catania è considerato il reggente di Cosa nostra non solo nella città del pistacchio ma anche nei vicini Comuni, in provincia di Messina, di Cesarò, San Teodoro, Cerami e Troina. Con lui sono finite in manette altre nove persone tra cui spiccano i nomi di Giovanni Pruiti, allevatore di Cesarò e fratello dell’ergastolano Giuseppe, e quelli di Antonino Galati e Salvatore Germanà, entrambi di Maniace.

Stempiato e con gli inconfondibili baffetti neri, Salvatore Turi Catania, è una vecchia conoscenza degli investigatori. Il suo nome emerge in diverse inchieste antimafia, come Padrini del 2008, Gatto selvaggio del 2011 e la più recente Iblis. Il presunto boss da sempre, secondo le accuse, è ritenuto un fedelissimo della famiglia Santapaola. In questa ottica si può leggere l’ormai storica rivalità con Francesco Montagno Bozzone, anch’egli di Bronte, ma appartenente al clan Mazzei. Nel Comune etneo nell’ultimo decennio si è creata una forte contrapposizione all’interno dei Santapaola, che ha portato un nutrito gruppo di affiliati a fuoriuscire dalla cosca. Scelta che ha dato il via a una lunga e sanguinosa faida. Iniziata quando Montagno Bozzone riuscì a sfuggire a due agguati: nel giugno 2000 e nel novembre 2001. Durante il primo tentativo l’obiettivo dei sicari era rimasto ferito all’interno di un bar di Bronte con un proiettile che gli trapassò la guancia, poi ricostruita con un intervento di chirurgia plastica. L’anno successivo i sicari vennero catturati tre giorni dopo l’altro agguato, avvenuto nei pressi di piazza Spedalieri. In manette finirono Claudio Reale – poi scampato a un agguato nel 2009 – Antonio Triscari e Daniele Salvà Gagliolo. Montagno Bozzone anche questa volta riuscì a rimandare l’appuntamento con la morte scappando con il suo autista dentro la casa di un parente. Poi denunciato, insieme a un medico del posto, per favoreggiamento. 

La faida di Bronte però non si è fermata. Il 7 dicembre 2001 viene ucciso Sergio Gardani e rimane ferito Bruno Sanfilippo Pulci, deceduto il 4 giugno 2002. Ci sono poi i tentati omicidi di Alessandro Franco e quello di Giuseppe Gullotti, del febbraio 2002. Nella stessa strategia criminale viene inquadrato anche il presunto caso di lupara bianca di Mario Attinà, irrintracciabile dall’agosto 2001.  Il pentito Santo La Causa cita Salvatore Catania in relazione all’omicidio di Angelo Santapaola e Nicola Sedici, avvenuto in un macello dismesso di contrada Passo Martino: «Si pensava di uccidere Santapaola in via Plebiscito a Catania, attraverso un ragazzo di Bronte, fidato di Turi Catania ma non si fece nulla». 

La Causa accusa Catania definendolo «una persona affidabile» e «precisa nel consegnare i soldi delle estorsione». L’ex reggente, inoltre, sarebbe stato proprio il padrino del presunto boss di Bronte, durante la cerimonia della punciuta per l’affiliazione ufficiale in Cosa nostra che, stando alle parole del collaboratore di giustizia, sarebbe avvenuta tra il 2007 e il 2008. In un periodo comunque successivo all’omicidio di Angelo Santapaola. Il volto di Turi Catania compare anche in alcune registrazioni del Reparto operativo speciale dei carabinieri confluite nell’inchiesta antimafia Iblis. L’uomo veniva filmato, insieme ad alcuni affiliati del clan Santapaola, all’interno di un’area di servizio utilizzata per i summit di mafia organizzati alla presenza del capo provinciale di Cosa nostra Vincenzo Aiello, oggi detenuto al 41bis e condannato in appello all’ergastolo.

Dario De Luca

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