Tecnis e il dubbio diffuso sull’antimafia di facciata Lupo: «La giustizia non basta, serve sana politica»

Dalle denunce per le estorsioni subite ai subappalti lasciati gestire alla mafia, il passo non dovrebbe essere breve. Eppure, quanto accaduto a Tecnis – il colosso dell’edilizia del quale la procura di Catania, insieme alle aziende Artemis e Cogip, ha sequestrato preventivamente quote societarie per oltre un miliardo e mezzo perché «asservito» agli interessi delle principali famiglie di Cosa nostra – dimostra che la distanza potrebbe essere molto poca. Fino al punto di coincidere. «Come ho detto già diverse volte, il posizionamento antimafia non garantisce niente. Non basta dire che si è buoni per esserlo – dichiara a MeridioNews il professore di Storia contemporanea dell’università di Palermo Salvatore Lupo, esperto del fenomeno mafioso -. A parte questo caso, la storia recente ci dice che esistono molti casi in cui alleati di Cosa nostra hanno tentato di ricostruirsi una verginità». La vicende di Mimmo Costanzo e Concetto Bosco Lo Giudice – già arrestati per un presunto giro di tangenti, nell’ambito dell’operazione Dama Nera – sono soltanto l’ultimo capitolo di una storia, quella dell‘antimafia strumentale, di cui non solo non si conosce il finale, ma neanche l’inizio. 

Era il 2012 quando Costanzo denunciò il tentativo da parte della criminalità organizzata di fare la cresta sui lavori di ammodernamento della statale 106 Reggio Calabria-Melito di Porto Salvo. Da quell’atto di ribellione ebbe origine l’operazione che colpì le cosche Latella-Ficara e Iamonte. Quattro anni dopo, si scopre che a fare affari con Tecnis erano un po’ tutti, almeno ne è convinta la Procura di Catania: dai Santapaola-Ercolano alla famiglia di Barcellona, passando per i sodali di Bernardo Provenzano fino ad arrivare al capo di Cosa nostra Matteo Messina Denaro. Gli elementi in mano agli investigatori ribadiscono una volta di più quanto sia difficile, oggi, scindere le mele buone da quelle marce, ciò che è antimafia da ciò che lo è solo per secondi fini. Lupo, da studioso, non si mostra stupito davanti all’ultima bomba giudiziaria. Tuttavia, per il docente, non bisogna cedere alla tentazione di ritenere «che tutto rimane così com’è». Anche perché l’inabissamento della mafia all’interno delle dinamiche economiche era in qualche modo prevedibile: «Dopo quello che è successo negli anni Novanta, con l’esplosione della galassia di Cosa nostra, era inevitabile che frammenti di quel mondo avrebbero tentato di attecchire sotto altra forma».

I risultati della magistratura – «stiamo togliendo l’acqua a un demone che dopo il 1992 ha assunto un volto di angelo», ha dichiarato ieri il comandante nazionale dei Ros Giuseppe Governale – vanno salutati con soddisfazione, ma non possono da soli garantire il cambiamento. «Siamo davanti a operazioni di polizia, non agli effetti di una rivoluzione – commenta Lupo -. La verità è che, oltre a esse, ci sarebbe bisogno di buona politica, di soluzioni alternative per le imprese. Mancando il germe positivo per fare attecchire la legalità, la possibilità che Cosa nostra si riassetti è più che concreta». Pensare a soluzioni facili, però, sarebbe ingenuo: «Ricette veloci non ne esistono – avverte Lupo -. In questo senso mi sento di dire che, oltre a chi agita la bandiera dell’antimafia strumentalmente, c’è anche chi, pur credendoci sinceramente, non ha soluzioni concrete. Perché le soluzioni passano per un’operazione ricostruttiva che non credo si realizzi soltanto gridando “Abbasso Riina e viva il magistrato di turno”».

Se oggi dovesse aggiornare uno dei suoi testi sulla mafia, il rischio per Lupo è quello di ritrovarsi a parlare più di economia che di storia. «È probabile, ma il problema non si pone perché faccio lo storico e scrivo di fenomeni consolidati nel tempo – sottolinea -. Oggi ci troviamo in un momento pieno di incognite. C’è chi ha fatto campagna elettorale dichiarando che la mafia fa schifo, salvo poi scoprirsi non lontano da certi ambienti. Non basta opporsi – specifica Lupo -. Forse bastava nel periodo delle stragi perché c’era bisogno che l’opinione pubblica prendesse posizione in maniera netta. Ma oggi le cose sono diverse». Più di quanto a volte si potrebbe pensare: «Ho l’impressione che ancora oggi, quando si parla di mafia, in molti vivano con la testa rivolta al passato – commenta il professore -. Basti pensare al numero di opinioni e interventi che si registrano sul processo Trattativa Stato-mafia, mentre meno sono i tentativi di interpretare il presente». Ma la Sicilia di oggi è migliore di quella di ieri? «Credo di sì, perché non ci sono le stragi e i morti per terra. Ma non ditemi che la mafia non uccide più perché ha tutto sotto controllo – conclude -. Mi rifiuto di accettare questa idea di Cosa nostra onnipotente e imbattibile».   

Simone Olivelli

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