L’altra notte ero in macchina, solo. A Catania. Sono venuto solo per pochi giorni. E l’altra notte l’ho girata mentre la gente dormiva. Insonne? Probabilmente. Sono nato in questa città, ma è così che l’ho conosciuta meglio sin da quando ero appena diciottenne: girandola in lungo e in largo con la mia automobile. E quando dorme questa città si mostra in tutto quello che è: una metafora continua. Nera, impenetrabile, lavica, fascinosa. Frettolosa, puzzolente, sporca. Una specie di bestia. Qualcosa legata al mito… Chilosà.
Girando per le sue vie, c’ho pensato molto. Ho pensato a cosa davvero mi manca di Catania ora che mi trovo fuori. Credo la follia, il sapersela cavare anche sul ciglio di un burrone. Perché è questo che questa città fa da sempre: cavarsela. Ed è lì che si trova da sempre: sul ciglio di un burrone. Perché ci si trovi, non lo so. Credo per quel sonno da cui i siciliani non vogliono essere svegliati (Tomasi di Lampedusa). Come riesca sempre a cavarsela? Credo per il cuore pugnalato a morte, ma che continua, incredibilmente, a battere. Ecco, mi manca questo di Catania. Il cuore folle, pazzo da ammanettare e per cui morire. Muore ogni giorno chi prova a fare impresa, chi scava cercando l’informazione, chi spazza lo strato muscolare di polvere che la ricopre, chi rispetta le regole. Ma resiste e il cuore batte. Come i caffè in cui ci perdiamo, come quelle sale dove tutti rivolgono la sedia verso la strada, come piante alla ricerca del sole. Altra metafora, ok.
Poi, chi mi conosce meglio, sa che sono schiavo della musica e che è la piattaforma su cui poggiano tutti i miei pensieri. E allora non posso non citare le parole di Cesare Basile a Radio Zammù: “Catania è un chiodo fisso, piantato nel petto, ed è qualcosa che mi porto sempre dietro ovunque io vada”. O Agostino Tilotta (Uzeda): “E’ stato un sacrificio rimanere qui, ma questo è un luogo della terra diverso dagli altri, non so se te ne sei accorto, è in un’isola, c’è il fuoco, c’è l’acqua”. Franco Battiato, fuggito da Catania, una volta ha detto: “La mia fuga è stata brutale. Ogni volta che tornavo per motivi familiari mi ammalavo, come se la mia terra mi rifiutasse. Ad un certo punto, però, la stessa terra mi ha richiamato, per riportare nel luogo d’origine tutto ciò che avevo imparato fuori”.
Carmen Consoli pensa ancora che Catania sia “una città che brilla, solo che i catanesi devono assumersene la responsabilità e capire quant’è importante”. Poi c’è Pompeo Benincasa che da 27 anni porta avanti Catania Jazz: “In questa Catania sempre più brutta, incasinata, povera e corrotta, non solo economicamente, sappiamo di essere considerati una specie di oasi, la prova che questa città ha le energie, le idee e gli uomini per risollevarsi, per costruire qualcosa di diverso, una migliore qualità della vita”. E Daniele Grasso, produttore e proprietario della prestigiosa sala di incisione The Cave, che dice: “Mi terrorizza il vuoto che lascia la politica culturale di Catania, preferisco pensare alla musica, il polso della città lo lascio ad altri”.
Dunque la musica, i musicisti, che ora cavalcano, ora ripudiano la bestia. Ora l’accarezzano, ora ne fuggono. A me, che scrivo di musica ogni giorno, sembra comunque un gran vantaggio. Cosa c’è di peggio per un musicista o per chi fa arte più in generale, non amare e odiare, allo stesso modo, il luogo in cui si è nato? Chi non ama i suoi genitori, ma, almeno una volta nella vita, li ha odiati? I miei pensieri sono questi, durante il tour notturno di/su Catania. Perché per me è la stessa cosa: io la disprezzo questa città, ma ci tornerei subito. Perché? Perché, come cantava De Andrè: “lo sai che lei è pazza ma per questo sei con lei”. Oppure, più semplicemente, per vedere, folle com’è, se riesce ancora una volta a cavarsela.
Lì, dal ciglio del burrone.
Riccardo Marra, 27 anni, giornalista pubblicista, scrive di musica per Universitinforma, ilcibicida.com, collabora con le pagine Spettacoli de Il Messaggero e con Radio Zammù. Cura il blog musicale New Picnic Time su Step1, di cui è collaboratore “storico”
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