Roma – A Pavia si studia perdiventare dottori in Scienze del fiore e del verde, mentre bisogna andare a Pisa per conquistare una laurea in Informatica umanistica. Ad Aosta hanno invece istituito un corso di laurea in Scienze e tecniche psicologiche delle relazioni di aiuto e a Bari uno in Scienze dell’allevamento, dell’igiene e del benessere del cane e del gatto. Sono alcuni dei corsi di laurea dai nomi curiosi, a volte sicuramente stravaganti che sono stati attivati negli ultimi anni. Con l’introduzione dell’autonomia universitaria e la riforma del 3+2, gli atenei italiani hanno moltiplicato l’offerta formativa con un obiettivo preciso: quello di “catturare” il maggior numero di iscritti. Ma anche le conseguenze sono ovvie: viene dato il via a decine di corsi con un numero di immatricolati che e’ possibile contare sulle dita delle mani.
In ballo c’è un mercato di 300-330mila “clienti”, vale a dire il numero di giovani che ogni anno entra nel mondo dell’università. Attirare il numero più alto possibile di persone vuoi dire per gli atenei non solo incrementare le entrate dirette (attraverso le rette), ma anche il prestigio, che permette a sua volta di conquistare docenti illustri, che a loro volta richiamano altri iscritti e conseguenti nuove entrate.
A questo scopo gli atenei fanno ricorso a ogni genere di strumento di marketing, a cominciare dai manifesti pubblicitari e dagli spot televisivi, che nella maggior parte dei casi giocano 1° carta della provocazione o dell’ironia. Si sfruttano i canali della comunicazione moderna, da internet ai videogiochi e si fa un largo ricorso alle lauree honoris causa, dispensate a piene mani a personaggi della tv e dello sport. L’importante è finire sotto i riflettori dei media, far parlare di sé, nel bene o nel male.
“L’università si sta aprendo alle dinamiche del mercato e questo di per sé non è un male – osserva Mauro Santomauro, responsabile della didattica e dell’orientamento presso il Politecnico di Milano – Molti diplomati non hanno idea del mondo universitario e l’informazione in tal senso può favorire l’inserimento. L’importante e’ non confondere comunicazione e pubblicità: la sovrapposizione finisce col favorire i messaggi ammiccanti e con il compromettere la qualità degli iscritti“.
Alla Bocconi hanno inventato un gioco per cellulari, intitolato “Ice scream empire”. L’utente è chiamato a simulare la conduzione di una piccola azienda di gelati: dalla registrazione dell’impresa all’assunzione dei collaboratori, agli investimenti in comunicazione. “L’obiettivo principale è sensibilizzare il largo pubblico ai temi dell’economia – spiega Mirka Giacoletto Papas, responsabile marketing e comunicazione dell’ateneo milanese – Siamo un ateneo a numero chiuso, per cui non
utilizziamo questo strumento per accrescere il numero di iscritti; semmai per ampliare la base di interessati e innalzare quindi il livello qualitativo dei selezionati”.
Nel 2002/03, primo anno di applicazione della formula 3+2, il ministero dell’Università ha censito 3.838 corsi di laurea, 2.917 di primo livello e 736 di secondo. Ma nel giro di pochi anni la situazione è esplosa, tanto che quest’anno si è toccata quota 5.434: un’impennata del 41 % (con le lauree specialistiche più che triplicate) in quattro anni, a fronte di una popolazione di immatricolati rimasta pressoché inalterata. Alcuni corsi quest’anno non sono partiti perché andati deserti nel recente passato, ma in molti casi sono stati prontamente sostituiti da altri simili. “In Italia c’è una situazione paradossale – spiega Guido Fiegna, membro del Cnvsu (Comitato nazionale per la valutazione del sistema universitario), organo consultivo del mistero dell’Università – Da un lato abbiamo appena il 13% di giovani tra i 25 e i 34 anni con un diploma di laurea, contro il 18% della media Ocse. Dall’altro c’è un’offerta formativa sovradimensionata rispetto alle necessità”. Punta l’indice contro il 3+2 Nunzio Miraglia, docente all’Università di Palermo e coordinatore nazionale dell’Andu (Associazione nazionale docenti universitari): “Quello a cui assistiamo oggi è la conseguenza diretta di una riforma adottata in tutta fretta, senza riflessione, ne’ confronto con le parti interessate, vale a dire docenti e studenti. Così, se da una parte abbiamo laureati triennali che non interessano al mercato, dall’altro assistiamo a decine di corsi specialistici con pochissimi iscritti”. Fiegna attribuisce le responsabilità dello status quo agli stessi atenei: “Il nostro comitato – precisa – ha provato ad arginare il fenomeno identificando dei requisiti minimi per avviare i corsi, primo fra tutti la presenza di almeno nove docenti. Il risultato è stato che alcuni atenei hanno ridotto la dotazione organica sino a questa cifra, destinando gli altri docenti alla nascita di nuovi corsi”.
Due i motivi principali che spiegano questo boom, entrambi legati a equilibri di potere. “L’istituzione di nuovi corsi soddisfa le ambizioni del personale docente e perpetua la gestione del potere accademico in capo alle stesse persone per anni”, accusa Miraglia, che punta il dito anche contro il proliferare di atenei sul territorio della Penisola. “La logica è la stessa – spiega – a cambiare sono solo i protagonisti: i detentori del potere politico a livello locale si fanno vanto di aver creato nuove sedi universitarie, spesso senza preoccuparsi se vi sia o meno una domanda sufficiente”.
Da AFFARI&FINANZA di Repubblica del 12 febbraio, pag. 47 – (Luigi Dell’Olio)
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