Cultura e spettacoli

Le vite di quattro donne rivoluzionarie diventano uno spettacolo teatrale. «Serve più alleanza tra i sessi»

Con un racconto diretto al pubblico, raffinati video e suoni Quattro Donne del Mondo è un ventaglio di biografie stupefacenti per la forza e la determinazione che contengono. «Sono storie di donne che ho scelto di raccontare non in quanto donne ma perché, ciascuna a suo modo, hanno portato una rivoluzione». È così che Valeria Patera racconta a MeridioNews il format che ha ideato e realizzato sulle storie di Quattro donne del mondoRita Levi MontalciniAda Byron LovelaceJohannaBonger – van Gogh e Ynès Mexia. «Alcune sono molto note, altre meno ma tutte e quattro hanno vissuti che è importante conoscere, specialmente in questo momento storico. Sono storie che ci insegnano – aggiunge Patera – che all’origine delle più importanti scoperte e invenzioni c’è una visione coraggiosa. Storie di vite che ci ricordano che le grandi cose sono fattibili se rinforzate da una sorta di alleanza tra i sessi».

Vincitrice di un premio Nobel per la Medicina nel 1986 per avere individuato il fattore di crescita nervoso (Ngf)Rita Levi Montalcini «ha avuto alle spalle un padre patriarca ma che – racconta l’autrice – alle figlie non impose mai nulla. Lui, che era di famiglia ebraica laica, insegnò alle figlie a essere delle libere pensatrici». Così Levi -Montalcini, ha trascorso vent’anni in America lavorando in importanti centri di ricerca e università e nella seconda parte della sua vita si è dedicata anche promuovere la scolarizzazione delle donne nei Paesi in via di sviluppo. Ada Lovelace, insieme al matematico Charles Babbage, progettò il progenitore del primo computer. «Nell’Inghilterra della Prima Rivoluzione Industriale, mentre ancora si usavano le candele, lei pensò a una forma di intelligenza artificiale e inventò il software cioè il primo linguaggio di programmazione». Il padre era il famoso poeta Lord Byron di cui si ricorda una celebre orazione alla camera dei Lord a favore dei luddisti, un gruppo di protesta che aveva distrutto i telai meccanici a causa della perdita di manodopera che ne era derivata. Un problema attuale se si pensa all’Intelligenza Artificiale. Ma se per il padre la meccanizzazione dei telai pareva un pericolo per l’umanità, per la geniale figlia Ada fu invece motivo di ispirazione.

Passando dalla scienza alla storia dell’arte, invece, incontriamo Johanna Bonger – van Gogh, moglie di Theo e cognata di Vincent van Gogh. Quando entrambi morirono nell’arco di sei mesi, insieme al suo bambino ancora piccolo, tornò in Olanda, il suo Paese natale. «Lì, con il sostegno del padre che era un uomo liberale, aperto e illuminato, comprò e restaurò una vecchia locanda dove cominciò a mettere in mostra i quadri di quello che, solo grazie a lei, diventerà uno dei pittori più amati di sempre», racconta Patera. Sono gli anni in cui il cognome van Gogh non diceva ancora nulla. La sua pittura era anzi rifiutata e osteggiata, e certe sette religiose volevano addirittura distruggere e bruciare le sue opere a causa di colori mai usati prima e, per loro, simbolo del demonio. Così, oltre ad aver salvato e promosso nel mondo l’opera del grande pittore, Johanna Bonger – van Gogh dedicò anni a catalogare, conservare, tradurre e pubblicare la fitta corrispondenza tra i due fratelli Van Gogh: migliaia di lettere scritte in inglese e francese e ora disponibili in molte lingue. 

Figlia di un diplomatico messicano, quella di Ynès Mexia, fino a 50 anni è una vita non comune, alto borghese ma triste, sottomessa e solitaria. Poi, dopo due matrimoni finiti e un forte esaurimento nervoso, scoprirà capacità delle quali era inconsapevole. «Saranno questo e il rapporto di grande amicizia e sostegno terapeutico che instaura con un grande medico che, all’alba della psichiatria, sperimentava la art therapy a farle prendere coscienza di tutte le sue potenzialità creative e scientifiche che rivoluzioneranno la sua esistenza». Da sempre amante della natura, alla fine del percorso terapeutico segue corsi universitari di Botanica. Dopo la laurea, all’inizio del Novecento, parte per esplorazioni ed escursioni in posti sperduti. «Lunghi viaggi in canoa, percorsi a dorso di mulo sulle Ande, poi PerùColombiaBoliviaAlaska Brasile – racconta l’autrice – Luoghi in cui fa incontri straordinari con i nativi e dove raccoglie oltre 170mila esemplari di piante sconosciute, tante delle quali oggi portano il suo nome (la mimosa è un esempio su tutti) che è quello di una delle più grandi botaniche del secolo scorso». È con il suo nome che si chiude il format a metà strada tra teatro e conferenza, per assicurare godimento e arricchimento attraverso l’esempio di grandi donne che hanno fatto la storia.

Marta Silvestre

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