Sparatoria Zen 2, agenti arrestati per falso Per il giudice è stata «una messinscena»

Sono accusati di calunnia e falso i due poliziotti, da ieri ai domiciliari, perché accusati di aver inventato un conflitto a fuoco che, per il giudice, sarebbe stato solo una messinscena. È giallo sulla vicenda che ruota attorno a una sparatoria allo Zen 2 risalente al marzo dello scorso anno, secondo la ricostruzione dei due poliziotti, finiti al centro di un’indagine, come riporta oggi il quotidiano La Repubblica. I due poliziotti Francesco Elia e Alessandra Salamone, interrogati questa mattina dal gip di Palermo Maria Pino, hanno ribadito la loro versione dei fatti: «Abbiamo visto un’auto che procedeva a zig zag, nella rotonda di via Lanza di Scalea – hanno detto -. Appena il conducente si è accorto di noi è fuggito e l’abbiamo inseguito. Abbiamo poi perso di vista il veicolo, fino a ritrovarlo allo Zen 2 dove c’è stato il conflitto a fuoco». 

Dopo la sparatoria, fu arrestato un giovane rom rimasto in carcere 59 giorni: Roberto Milankovic (per altro non riconosciuto dagli agenti dopo il suo arresto) che è a processo, ma solo per resistenza a pubblico ufficiale. Durante le indagini è infatti caduta l’accusa di tentato omicidio. Le spiegazioni date dagli agenti, per il giudice, «non sono plausibili e compatibili con i riferimenti temporali inerenti agli accadimenti successivi». Anche gli accertamenti balistici convergerebbero verso l’ipotesi di calunnia, secondo il gip. Per il perito Glauco Angeletti, consulente del pm, il proiettile che colpì l’autovettura della polizia fu sparato da 6-8 metri e non 40 come riferito dai poliziotti. 

«E’ una consulenza priva di qualsiasi carattere scientifico, fatta da una persona che si occupa di armi antiche – ha detto l’avvocato degli agenti Antonino Zanghì – Il proiettile è stato sparato da almeno 15-20 metri. Una distanza compatibile con la versione dei miei assistiti, inoltre non è possibile che Elia si sia sparato causandosi una ferita come quella che aveva sul braccio”. Il giudice ha ricostruito anche un possibile movente. Gli indagati avrebbero agito per «conseguire visibilità e benefici nell’ambito dell’amministrazione pubblica di appartenenza. La simulazione del conflitto a fuoco è stata realizzata mediante un atto di autolesionismo e adoperando beni dei quali gli indagati avevano disponibilità per il lavor»”. Anche questo, secondo Zangì, è «assurdo» così come è «sproporzionata la misura cautelare». Per il gip, «il pericolo di reiterazione criminosa è grave ed è attuale».

Redazione

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