Siracusa, la crisi del petrolchimico oltre la richiesta al Mise «Manca accordo su ripartenza: rischio che si smantelli tutto»

«L’area industriale di Siracusa non è solo da tutelare ma anche da rilanciare». Così il presidente della Regione Nello Musumeci ha motivato la firma sul protocollo d’intesa per chiedere al ministero dello Sviluppo economico di istituire l’area di crisi industriale complessa del Polo industriale petrolchimico di Siracusa. L’obiettivo è quello di «alimentare l’export siciliano» potendo attingere a misure di sostegno economico e finanziario per le aziende che si sono insediate nella costa più industrializzata della Sicilia orientale. «Una misura utile su cui, però, fin dal primo momento, abbiamo sollevato qualche riserva», commenta a MeridioNews il segretario generale della Cgil aretusea Roberto Alosi.

Quella che per l’assessore regionale alle Attività produttive Mimmo Turano è «una realtà importantissima per l’economia siciliana e nazionale» – tanto da non essersi mai fermata nemmeno durante la pandemia – produce un fatturato complessivo di 12,2 miliardi. In pratica il 15 per cento del valore dell’industria della trasformazione in Sicilia e il 53 per cento della provincia di Siracusa. Nel quadrilatero industriale, che interessa oltre al capoluogo anche i territori di Augusta, Melilli e Priolo Gargallo, sono impiegati circa 7.500 lavoratori – tra diretti e indotto – di cui 3.250 nelle grandi imprese del polo chimico, petrolifero ed energetico. In gran parte, nelle sette multinazionali presenti nell’area: dai russi di Lukoil all’algerina Sonatrach per arrivare a Sasol, Versalis, Erg Power Air Liquide. Sull’istanza avanzata dalla Regione, pur avendo firmato il protocollo d’intesa – insieme alle altre sigle sindacali Cisl e Uil – la Cgil conserva qualche perplessità

«La prima potremmo dire che è quasi scaramantica – spiega Alosi – Guardando alla storia dei precedenti sulla nostra Isola, l’istituzione di aree di crisi industriali complesse non ha portato bene». In passato, infatti, il ministero dello Sviluppo economico ha già dichiarato quella di Termini Imerese (nel Palermitano) e quella di Gela (in provincia di Caltanissetta). «Nel primo caso, possiamo dire che sia rimasta solo la crisi perché l’intera area è stata desertificata – ricostruisce il segretario della Cgil – A Gela, invece, con il protocollo si sono persi circa 2000 posti di lavoro e anche lì la riconversione, in pratica, non si è mai vista». Il che si collega con la seconda delle riserve esposte dalle sigle sindacali. «Nella richiesta che verrà vagliata dal Mise – sottolinea Alosi – manca l’accordo di programma che deve guardare alla reindustrializzazione dell’area con un cronoprogramma preciso delle innovazioni da mettere in campo tenendo conto delle innovazioni tecnologiche e anche della sostenibilità ambientale». Punto critico per l’intera area in cui, negli anni, non sono mancati i sequestri degli stabilimenti e le successive battaglie per denunciare il mancato miglioramento della qualità dell’aria.  

Adesso, la crisi dell’area viene certificata ma sulla ripartenza del sistema industriale ci sono solo vaghe dichiarazioni di intenti. «La definizione di impegni programmatici, di obiettivi e di investimenti è stata rimandata a un secondo momento – continua il sindacalista – Il che ci è sembrato sospetto: non vorremmo che rimanesse solo la fase destruens senza quella construens». Eppure, oltre a quella della Regione, di undici Comuni del Siracusano, delle aziende, di Confidustria Sicilia, dell’autorità portuale Sicilia orientale e della Camera di commercio del Sud-Est, sul protocollo c’è anche la firma dei sindacati. «Abbiamo firmato a denti stretti – ammette Alosi – Ad averci incoraggiati è stata l’idea che possa essere uno strumento utile per accendere un riflettore sul petrolchimico con la creazione di un tavolo ministeriale». 

Gli obiettivi del governo nazionale di decarbonizzazione, abbattimento di Co2 e annientamento delle emissioni inquinanti impattano su uno dei poli più grandi d’Europa che da settant’anni fa uso di idrocarburi. «Il rischio è che si smantelli tutto – sostiene Alosi – E sarebbe una bomba sociale perché ci troveremmo con 8.000 disoccupati in più, in una provincia che ne conta già circa 100mila». Un primo segnale della profondità della crisi, che ha messo in allerta i sindacati, si è avuto a gennaio quando «per la prima volta Lukoil, che è una delle più grandi aziende dell’area industriale, ha messo in cassa integrazione anche i dipendenti diretti. In questo senso – conclude il sindacalista – il governo dovrebbe intervenire per costruire insieme alla aziende la fase di trasformazione».

Marta Silvestre

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