Sindrome di Stoccolma: quando l’amore è per il proprio «carnefice»

di Claudia Corbari

Come può un ostaggio innamorarsi del proprio rapitore? Cosa accade realmente? Fino a che punto la mente umana può essere plasmata da situazioni altamente stressanti?

Sono queste le domande che molti di noi si pongono quando vengono a conoscenza di casi in cui persone insospettabili si siano innamorate dei propri carnefici ed abbiano iniziato a condividerne gli scopi di vita.

La «Sindrome di Stoccolma», coniata nel 1973 dal criminologo e psicologo Nils Bejerot, indica la catena affettiva che si sviluppa tra l’ostaggio ed il rapitore o, più in generale, tra la vittima e il carnefice, a partire dalla regressione pre-edipica.

Essa sembra essere una risposta automatica al trauma del diventare ostaggio di qualcuno che fa sì che si scatenino dinamiche per cui la vittima decide, spesso inconsciamente, che diventare amica del sequestratore o addirittura innamorarsene possa essere il modo migliore per sopravvivere alla situazione altamente stressante che sta vivendo.

Con questo articolo non si ha la pretesa di affrontare in modo esauriente un argomento di tale spessore, ma quantomeno si tenterà di sollevare quesiti al fine di comprendere che, probabilmente, ciò che in condizioni normali consideriamo assurdo, in situazioni altamente stressanti può accadere a chiunque. Da qui l’esigenza di astenersi dal giudicare una sindrome di tal genere, ma di comprendere i meccanismi che la fanno scatenare.

Viene spontaneo interrogarsi su come una persona che ha sempre avuto uno specifico temperamento e determinati valori possa, successivamente alla cattura, rinnegare il passato e stravolgere la propria vita mettendo in atto azioni aggressive o in contrasto con la sua personalità.

Per comprendere meglio lo stato mentale in cui si trova la vittima, bisogna prendere in considerazione alcuni fattori cruciali: lo shock psicologico che segue alla cattura, la disumanizzazione della vittima e la regressione pre-edipica della stessa.

Fortunatamente, se non in presenza di patologie conclamate, nessuno di noi esce di casa al mattino pensando di poter essere rapito o travolto da qualcosa di estremamente pericoloso e questo accade perché, volente o nolente, la nostra mente ha dei punti di riferimento che ci permettono di mettere in atto quotidianamente azioni che si basano su aspettative e routine.

Appare chiaro a tutti che l’essere presi in ostaggio è un evento che mette in una condizione di fortissimo stress la nostra mente e che fa crollare qualunque punto di rifermento presente fino a quel momento. La persona, infatti, è costretta a cambiare la sua condizione ed a vivere in modo repentino il passaggio dall’essere indipendente ad essere dipendente da un solo individuo: il suo rapitore.

Da quel momento in poi la pianificazione ed il controllo del proprio tempo sfuggono di mano e la vittima può vivere, conseguentemente allo stato di shock, una condizione di paralisi accompagnata da un’agitazione ansiosa che può arrivare fino alla confusione mentale.

In un primo momento non sarà in grado di analizzare ciò che le sta accadendo ma, da subito, la psiche cercherà di stabilire un nuovo equilibrio per sopravvivere all’evento traumatico; per fare ciò, la persona instaurerà una relazione con il proprio rapitore.

La totale dipendenza per qualunque aspetto della vita (mangiare, bere, andare in bagno) condurrà la vittima ad uno stato di regressione infantile (pre-edipico) che le farà vivere una relazione simile a quella che, durante l’infanzia, aveva vissuto con la madre; ciò avrà come diretta conseguenza l’attivazione di comportamenti che tipicamente il bambino ha nei confronti dei suoi genitori, ovvero l’identificazione, l’idealizzazione e l’amore.

Ma c’è di più: la vittima percepisce di essere merce di scambio e di essere dunque disumanizzata dal proprio rapitore e, quindi, inizia a percepirsi come oggetto piuttosto che come essere umano. L’identificazione con il proprio aggressore può avere origine anche da questo vissuto e può essere fomentata dal fatto che, in quei momenti, lui sarà l’unico a poter restituire il valore di persona alla vittima; ciò mediante una vicinanza agevolata dalla condizione di isolamento che entrambi, vittima e carnefice, sono costretti a vivere.

Infine, il sentimento di impotenza che la vittima sviluppa in relazione all’impossibilità di fuggire, contribuisce all’emergere della tentazione di collaborare con il proprio aggressore.

Perché, in fondo, percepirsi protagonisti delle proprie azioni è sempre meglio che sentirsi vittime inermi.

Foto tratta da larosanera.it

 

Per contattare la Dott.ssa Claudia Corbari, inviare una email al seguente indirizzo: corbariclaudia@gmail.com

 

Riferimenti bibliografici:

Strano M., 2003. Manuale di criminologia clinica. Firenze: SEE Editrice.

 

Redazione

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