Ricostruire il tempio G di Selinunte, il pallino di Sgarbi Tra possibili finanziatori, divisioni e difficoltà tecniche

In piedi c’è solo una colonna, i locali la chiamano U fusu di la vecchia. E i pescatori della zona la usano come riferimento nella navigazione. Tutto attorno, il tempio G di Selinunte è un ammasso di rovine, le prime che si incontrano entrando nel parco archeologico trapanese. Sono così dal quinto secolo dopo Cristo, da quando un forte terremoto ha distrutto quello che è considerato uno dei più grandi templi dell’antichità greca. E sono diventate, anche se per la verità lo sono da tempo, il pallino di Vittorio Sgarbi, da meno di una settimana nuovo assessore regionale ai Beni culturali. «Il primo atto che farò è la ricostruzione del tempio G di Selinunte», ha detto ai giornalisti a margine della prima riunione della giunta poi diseratata dal critico d’arte. Un annuncio messianico proprio mentre Nello Musumeci predicava prudenza: «La giunta ha deciso di mantenere un profilo basso nella comunicazione esterna, spero vogliate apprezzarlo – sottolineava il presidente -. Preferiamo parlare solo quando le cose sono state fatte». Impossibile per Sgarbi. Che, sollecitato da MeridioNews, rincara la dose: «Il tempio sarà in piedi molto prima della fine del governo Musumeci, ho già parlato con un banchiere milanese e con un imprenditore, i miei uffici sono a lavoro per un preventivo». 

La ricostruzione del tempio G è una sfida avvincente e allo stesso tempo una questione annosa che divide. O meglio, per usare le parole del direttore del parco archeologico di Selinunte Enrico Caruso, che «dilania gli operatori del settore». Molti infatti sono critici rispetto alla stessa possibilità di trasformare quelle rovine in qualcos’altro. Netta, ad esempio, la posizione del presidente di Italia Nostra Sicilia: «L’ipotesi di ricostruzione propagandata da Sgarbi dimostra inesorabilmente quanto sia cinica e decadente la sua visione del mondo – ha detto Leandro Janni – . Quanto sia strumentale il suo rapporto con l’arte e la bellezza. Lasciateci continuare a contemplare, magari pulito, ben mantenuto e assistito, il gigantesco ammasso delle membra abbattute del tempio G, che da secoli domina il magico paesaggio archeologico di Selinunte». In realtà questa posizione non è condivisa dagli esperti siciliani che potrebbero avere un ruolo centrale in questa vicenda, a cominciare proprio dal direttore del parco. «Sono favorevole in generale alla ricostruzione – dice Caruso – non possiamo pensare che sia un terremoto a dare un senso all’architettura, altrimenti non si dovrebbe ricostruire nulla, nemmeno Norcia». D’altronde delle critiche di concetto, Sgarbi non sembra proprio interessarsi. «Me ne frega meno di zero di chi si oppone a priori», chiosa. 

Ci sono però ben altre difficoltà, messe in luce anche da chi, in linea teorica, gioirebbe nel vedere il tempio ricostruito. «A livello tecnologico oggi tutto è possibile – spiega Sebastiano Tusa, noto archeologo e sovrintendente del Mare – ma in questo caso c’è una duplica difficoltà: non sappiamo come era fatto il tempio, mentre sappiamo che quando fu distrutto non era neanche stato ultimato». L’ultimo a muovere qualche passo nella strada della ricostruzione è stato Mario Luni, storico archeologo di Urbino, morto nel 2014. È stato soprattutto lui, nel 2011, insieme allo scrittore Valerio Massimo Manfredi, a trovare uno sponsor, la fondazione Sorgente group, ad avviare uno studio sulle rovine, a realizzare un plastico del tempio e a organizzare un convegno di tre giorni su pro e contro della ricostruzione. «Lumi – spiega Tusa – prese in esame il lato sud occidentale, eseguì dei saggi per capire come era era stato fatto. Partì da un rilievo precedente e lo migliorò, arrivando a un’ipotesi di ricostruzione, associando tutti i pezzi visibili alle varie colonne. Tuttavia uno studio approfondito e preliminare a una ricostruzione non è mai stato fatto, dovrebbe essere un’operazione binaria: da una parte si dovrebbero aprire tutte le rovine e collocare i rocchi (i blocchi di pietra ndr) in una vasta spianata. Dall’altra parte si dovrà presumibilmente scavare per far emergere quello che non è visibile e che non conosciamo. È un’operazione lunga – sottolinea l’archeologo – e servono certezze economiche e politiche». 

Sgarbi non è d’accordo: «Non servono tempi lunghi: si tratta di rimettere in piedi 40 colonne cadute», minimizza. Mentre sulle fonti di finanziamento è fiducioso, ma si sbilancia parzialmente. «Nei giorni scorsi ho parlato con la fondazione Sorgente group che nel 2011 era disponibile all’operazione, ma rimasero turbati perché nessuno diede seguito al convegno. Loro ci sono ancora. E poi ho chiesto a un banchiere milanese di cercare investitori. A breve, quando avrò un preventivo, potrò essere più preciso». La fondazione Sorgente opera nei settori degli immobili, della finanza e anche dei restauri. Stando a quanto dalla stessa dichiarato sul proprio sito, possiede un patrimonio immobiliare di circa cinque miliardi di euro. Ed è con l’azionista di maggioranza, l’imprenditore Valter Mainetti, che Sgarbi dice di avare un canale aperto. Tuttavia, stando a chi fu impegnato in prima linea nell’operazione del 2011, fu la stessa fondazione, dopo il convegno, a perdere l’interesse per il progetto di ricostruzione del tempio. Il neo assessore ai Beni culturali, poi, si tiene in serbo un jolly: quello di una ricostruzione che definisce «in 3D ma non virtuale, piuttosto fisica, con identici volumi ma con materiali diversi, partendo dall’esistente, da quello che resta del tempio, una ricostruzione allusiva». 

Sogni? Promesse di inizio mandato? O le basi per un’avventura che farebbe storia? «Se pensiamo a quanto costa costruire un chilometro di autostrada – analizza Tusa – la spesa per la ricostruzione del tempio G sarebbe comunque irrisoria. Quello che è certo che se si inizia, bisogna finire. Servono certezze politico istituzionali: non si può cambiare parere al passaggio da un assessore all’altro, o da un governo all’altro. Altrimenti diventeremmo lo zimbello del mondo».

Salvo Catalano

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