Quel rumore che viene da New York

Se andate nel Village, a New York, ancora il legnaccio dei locali potrebbe conservare certa polvere del passato musicale della Grande Mela. Magari quella portata dalle scarpe dei Velvet Underground di Lou Reed e John Cale (e di Andy Warhol per un periodo). A New York, tra i live club più importanti, tra le botteghe di musica sopravvissute ai mediastore, tra quelle stradine del Greenwich tutt’ora piena di musicisti, artisti ecc.., non si può far finta di niente su una specie di passaggio di consegne musicali che ha visto i Velvet cedere lo scettro di noise band yankee ai Sonic Youth e poi questi lasciare spazio ad un trio atipico, intellettuale, innatamente di successo: i Blonde Redhead.

 

Cosa accomuna queste tre band? Certamente il Noise, concepito come ricerca del suono così com’è, senza aggiustamenti di sorta, vissuto nell’attesa di tutte le potenzialità che lo strumento elettrico può dare e, in più, psichedelico come sono psichedeliche certe luci accecanti, ma bellissime. Dunque il rumore sì: i Velvet Underground si fecero sbattere fuori una sera di quarant’anni fa per aver portato on stage un pezzo, tutto disastro e dissonanza, come “The Black Angel’s Death Song”. I Sonic Youth di Moore e Ranaldo sono stati (oggi un po’ meno) forse la migliore formazione di rock metropolitano, tra coltellate di chitarre di “Confusioni is Sex”, disastro industriale di “Goo” e confusione delirante del secolo breve di “Daydream Nation”.

 

E anche i Blonde Redhead dei fratelli italo-americani Simone (batteria) ed Amedeo Pace (voce e chitarra) e della conturbante bassista nippo-americana Kazu Makino, esorditi nel ’93 proprio sotto l’egida di uno come Steve Shelley (Sonic Youth), hanno offerto al fuoco sacrificale del rock rumoroso molto di se stessi. Vedi l’esordio omonimo, vedi un capolavoro di grande emotività come “Fake can be just as good” dove all’omaggio a Pier Paolo Pasolini (anche i Velvet dedicarono un brano ad un letterato: Delmore Schwartz) si interseca una fretta post-punk, un affanno nevrotico ed una strumentazione palpitante, selvaggia, dal sapor di lamiera e strade zuppe e tutto affrancato a fuoco dal marchio Touch and Go e sferzato dal piglio hardcore di Guy Picciotto (Fugazi).

 

Poi però i Blonde Redhead hanno fatto spallucce su un’eredità “accollatagli” forse troppo in fretta. E già nel 2001 quando il pubblico catanese ebbe la possibilità di pagare un ticket per vederli all’ormai defunto Sonica di Misterbianco, il trio newyorkese aveva deciso nella propria svolta musicale. Synth, chitarre “spaziali”, ballate electro-pop ed una sinuosità/spiritualità che cosparse segatura sulle macchie e sulla cattiveria di album come “La mia vita violenta” (di nuovo Pasolini) ed in generale su quell’impeto maniacale a cavallo del quale i Blonde nacquero a inizio ’90. “23”, uscito quest’anno, conferma gli ingredienti del nuovo corso. Kazu svolazzante con la sua voce fragile, ma tagliente come vetro rotto. I fratelli ad inseguirsi in lavoratissime composizioni di rock ammorbidito dall’elettronica. E dunque il rumore che viene sgrassato di significati e ri-imbottonato in una forma ricamata di canzoni più vicine al mood degli anni ’80. E dunque i nuovi Redhead, martedì a Catania.

Riccardo Marra

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