Quegli eritrei presi a manganellate!

dalla nostra corrispondente da Lampedusa
Paola La Rosa

Il 6 maggio 2009, a 35 miglia a sud di Lampedusa, in acque internazionali, le autorità italiane intercettavano una nave con a bordo circa 200 persone di nazionalità somala ed eritrea (tra cui donne e bambini). I migranti venivano trasbordati su imbarcazioni italiane e riportati a Tripoli contro la loro volontà, senza essere identificati, ascoltati né informati sulla loro destinazione.

Era il primo “respingimento” eseguito sulla base degli accordi tra Gheddafi e Berlusconi. Da allora e fino al settembre 2010 oltre duemila migranti africani sono stati intercettati nelle acque del Mediterraneo e respinti in Libia, senza che ad essi venisse data alcuna possibilità di presentare richiesta di protezione internazionale in Italia.

Il 23 febbraio 2012 la Corte europea dei diritti umani di Strasburgo ha condannato l’Italia per quei respingimenti verso la Libia per la violazione di 3 principi fondamentali: il divieto di sottoporre a tortura e trattamenti disumani e degradanti (art. 3 Cedu), l’impossibilità di ricorso (art.13 Cedu) e il divieto di espulsioni collettive (art.4 protocollo aggiuntivo Cedu).

Ma cosa era realmente accaduto ai migranti durante i respingimenti? Per rispondere a questa domanda Stefano Liberti (giornalista e scrittore) ed Andrea Segre (regista), decidono di rintracciare i migranti che erano stati vittime dei respingimenti italiani per fare raccontare a loro stessi le violenze e le violazioni commesse dall’Italia ai danni di persone indifese, innocenti e in cerca di protezione.

Nasce così il documentario ‘Mare Chiuso’ che, attraverso i racconti di dolore e dignità dei protagonisti di questa storia, denuncia apertamente la responsabilità dell’Italia accertata dalla sentenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo.

Stefano Liberti, è stato difficile rintracciare i migranti che sono stati vittime dei respingimenti?

“Non è stato difficile perché fin dal 2009 io ero in contatto telefonico e via mail con alcuni di loro. Essendo andato varie volte in Libia negli anni scorsi, avevo stabilito rapporti di profonda fiducia e di reciproca conoscenza con diversi esponenti della comunità eritrea; rapporti che si sono rivelati decisivi nella fase di concezione e di riprese del film. Quando è scoppiata la guerra in Libia, gran parte dei cittadini somali ed eritrei che erano a Tripoli sono fuggiti nel campo profughi di Shousha, in Tunisia. Qui li abbiamo incontrati e qui abbiamo girato buona parte del nostro film. Devo dire che quando siamo arrivati nel campo abbiamo riscontrato una partecipazione attiva, un coinvolgimento nel progetto del film documentario molto più alto delle aspettative. Tutti i nostri protagonisti volevano assolutamente raccontare quella storia. E lo volevano fare soprattutto per due ragioni: trovare una forma di riscatto all’ingiustizia subita, ma anche e soprattutto ‘evitare che quell’errore sia ripetuto’, come dice efficacemente Bekit, uno dei respinti eritrei”.

Cosa vi hanno raccontato?

“Ci hanno raccontato come era avvenuta l’operazione di respingimento. Come sono stati ingannati dagli italiani, che hanno detto loro che stavano andando a Lampedusa e li hanno invece portati in Libia. Come sono stati malmenati dopo che hanno scoperto la vera destinazione e hanno inscenato una protesta. I loro racconti sono molto duri: parlano di botte con manganelli, di pistole elettriche immobilizzanti, di manette e di perquisizioni violente. Peraltro, secondo le loro testimonianze, i militari italiani avrebbero sottratto loro tutti i beni personali (documenti, telefoni e anche soldi) e non glieli avrebbero più restituiti. Una volta arrivati in Libia, i respinti sono stati rinchiusi nei centri di detenzione, dove hanno subito ulteriori abusi e torture”.

Dove sono adesso? Sei ancora in contatto con alcuni di loro?

“La gran parte di loro sono tuttora nel campo profughi. Abbiamo contatti frequenti con loro. A questo proposito, vorrei dire una cosa: quando abbiamo avuto l’idea di fare questo film, abbiamo pensato che andava fatto immediatamente, perché i nostri protagonisti erano in un campo di transito delle Nazioni Unite, in attesa di essere ricollocati altrove: negli Stati Uniti, in Canada, in Australia, in Europa. Purtroppo, ci sbagliavamo: i programmi di resettlement avanzano a rilento e, un anno dopo il loro arrivo, gran parte dei rifugiati somali ed eritrei sono tuttora lì in attesa”.

Il calendario delle proiezioni è fittissimo. Come stanno andando? Come reagisce il pubblico?

“Le proiezioni vanno molto bene. Sono molto partecipate. Nei contatti che abbiamo avuto con il pubblico in occasione di alcune proiezioni, molti si mostrano stupefatti, sorpresi. Ci dicono: non sapevamo che l’Italia faceva quelle cose e in quel modo”.

Il film verrà trasmesso in TV?

“Per il momento non c’è alcun accordo con televisioni nazionali per mostrare il film”.

foto dei migranti tratta da lenovae.it

 

Paola La Rosa

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