«I rapporti con Basilotta li aveva Francesco La Rocca. L’unico affare riguardava il centro commerciale Etnapolis. Mio zio mi disse che doveva dare un milione di euro». Un racconto distaccato, vissuto sui ricordi di un mafioso, oggi collaboratore di giustizia, che per anni è stato un affiliato riservato. La sua partecipazione alle dinamiche della mafia catanese era conosciuta soltanto a pochi parenti, almeno fino al 2008. A parlare nel processo Dionisio, su mafia e imprenditoria catanese, davanti i giudici della corte d’Appello di Catania è Paolo Mirabile, protagonista insieme allo zio Alfio, ormai deceduto, e al fratello, anch’egli pentito, Giuseppe, delle dinamiche di Cosa nostra etnea a cavallo del nuovo millennio.
L’indagine risalente al 2005 e il successivo processo impattarono nel 2012 con il giudizio della sesta sezione della corte di Cassazione che annullò con rinvio la sentenza d’appello dell’anno precedente. Una decisione che fece scalpore per la severità con cui i giudici ermellini motivarono la loro scelta. In uno dei passaggi chiave la decisione in secondo grado veniva addirittura etichettata come «gravemente deficitaria e caratterizzata da un linguaggio arcaico». Un processo lungo e ricco di colpi di scena che vede alla sbarra alcuni membri del gotha di Cosa nostra. Su tutti Nitto Santapaola che ha assistito, seduto dietro una scrivania della saletta 13 del carcere di Milano-Opera, alla deposizione di Paolo Mirabile. Tra gli imputati di spicco c’è anche Vincenzo Basilotta, imprenditore originario di Castel di Iudica ribattezzato come il re del movimento terra, divenuto celebre perché più volte affiancato al nome dell’ex presidente della Regione Raffaele Lombardo.
Ad occuparsi dei rapporti con l’imprenditore calatino sarebbe stato per diversi anni Alfio Mirabile, zio dei fratelli pentiti e suoi successori nella reggenza, vittima nel 2004 di un agguato che gli costò la paralisi delle gambe. «Basilotta era un imprenditore amico – spiega il collaboratore – perché c’era un rapporto per cemento e subappalti e se c’erano problemi si potevano risolvere all’istante». L’affare d’oro era quello del centro commerciale Etnapolis, «doveva dare un milione di euro», prosegue Mirabile. I due tuttavia non ebbero mai rapporti diretti, «me lo fece vedere mio zio quando lo accompagnai in un supermercato per incontrarsi con lui».
A tenere alta l’attenzione sono anche i racconti delle estorsioni alla catena di supermercati M.A.R. gestiti in passato dall’imprenditore Francesco Aleo. Punti vendita dislocati tra Catania e Caltagirone in cui titolari che avrebbero versato alle casse della famiglia mafiosa dei Santapaola una somma di «24mila e 500 euro ogni tre mesi». A occuparsi delle modalità di pagamento, sempre stando al racconto di Paolo Mirabile, sarebbe stato il ragioniere Santo Giammona, finito tra gli imputati del processo. «Veniva utilizzato – rivela il collaboratore ai magistrati Agata Santonocito e Gaetano Siscaro – perché, essendo ragioniere, sapeva come fare sparire i soldi delle estorsioni, così nessuno sapeva di questa cosa».
Il racconto di Mirabile fa anche un passo avanti spiegando i dissidi con la famiglia degli Ercolano-Mangion che culminarono proprio con l’attentato del 2004 ad Alfio Mirabile. Rancori legati alla gestione delle estorsioni e degli appalti. «Nel 2003 mio zio si vedeva a piazza Trento a Catania con Mario Ercolano (imputato nel processo, ndr). Era stato stabilito che entrambi erano responsabili per la famiglia. Ma ci furono problemi e una spaccatura per i soldi di un’estorsione da 50mila euro».
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