Peppino Impastato, trent’anni dopo

“Peppino è vivo e lotta insieme a noi! Le nostre idee non moriranno mai!”: sono almeno cinquemila le persone che urlano in una sola voce lo stesso slogan di ventinove anni fa, quando il 9 maggio 1979 ad un anno dalla morte di Peppino Impastato fu organizzata la prima manifestazione nazionale contro la mafia a Cinisi. Sfilano ordinate, ripercorrendo la stessa strada che Peppino quella sera di maggio con la sua Fiat 850 fece per l’ultima volta, partendo dalla sede di Radio Aut a Terrasini fino alla Casa Memoria di Cinisi. Un serpente lungo un paio di chilometri, coloratissimo e rumoroso, con in testa gli amici di Peppino ad aprire il corteo con lo striscione storico della prima volta “La mafia uccide; il silenzio pure”. A seguire i rappresentanti dei collettivi, i centri sociali, esponenti dei comitati No Tav, No Dal Molin, No Ponte, volontari di Libera e dell’Arci, amministratori, scout e soprattutto tantissimi ragazzi, arrivati da tutte le parti d’Italia, e assieme a loro i tanti militanti di sinistra delle generazione di Peppino che hanno voluto essere presenti numerosi.
 
Migliaia di volti diversi uniti nel ricordo e nella lotta che non si ferma mai. Hanno tutti una margherita gialla, al collo, in una tasca, nascosta tra i capelli. Le distribuisce Luisa, nipote di Peppino, sotto la sede di Radio Aut. Giovanni Impastato ha voluto che la più grande manifestazione organizzata per Peppino, insieme al Centro Siciliano di Documentazione Antimafia Impastato, lanciasse un segnale forte di riaffermazione della condanna della mafia ieri come oggi. Per questo motivo l’anniversario è stato vissuto con la scansione di iniziative che si sono succedute durante quattro giornate, dal 8 all’11 maggio, con forum, concerti e spettacoli, mostre, dibattiti per discutere di antimafia sociale, di informazione, di obiezione di coscienza e di movimenti antagonisti.
 
Il corteo, partito alle 18 da Terrasini, giunge a Cinisi alle 20. Ad aspettarlo c’è un paese avvolto nel silenzio. Esattamente come trent’anni fa le persiane di Corso Umberto rimangono serrate. “Finchè rimarranno chiuse, vorrà dire che la mafia non è stata ancora sconfitta” disse Umberto Santino trent’anni fa. Solo qualche negoziante curiosa imbarazzato, qualcuno si affaccia, qualcun altro spia nascosto dietro le finestre. La sensazione è che per gli abitanti di questo piccolo paesino del palermitano il tempo si sia fermato. Pochissimi sono in strada tra i manifestanti, solo una ragazza alza la mano quando Salvo Vitale, compagno di Peppino, durante il forum sull’informazione tenutosi in mattinata, chiede “Chi è di Cinisi alzi la mano”. Sembra in alcuni squarci un paese che vive in un altro continente. Poi il fiume inonda questo silenzio angosciante, lo colora di slogan e canzoni, ne dipinge un altro volto. Due mondi sono in collisione e il loro contrapporsi provoca emozioni fortissime.
 
L’indifferenza dei suoi compaesani si scontra con i cori di chi ha conosciuto la storia di Peppino e vuole valorizzarla. Perché Peppino è diventato sempre più negli anni una figura di riferimento viva, che anziché cadere nell’oblio, cosa che è avvenuta per tantissimi altri esponenti dell’antimafia, sedimenta nell’identità, nel cuore e nella lotta di moltissimi, soprattutto nelle nuove generazioni. Probabilmente grazie alla carica di rottura che emana dalla storia di Peppino, quel suo essere non solo per una legalità astratta, ma per la sua capacità di cogliere gli intrecci tra legalità e illegalità, di opporvisi con gli strumenti della non violenza, del controllo dal basso, a partire dalla lettura dei bisogni del territorio, dei suoi interessi generali contro quelli affaristico-mafiosi. Una figura, quindi, che propone un modello di società alternativo, che riesce ad essere attuale per i tanti che vogliono cambiare lo stato di cose esistenti, soprattutto in una Sicilia segnata dal trasformismo e dal consociativismo.
 
“La mafia è una montagna di merda!” scriveva Peppino, una montagna che c’è chi sceglie di scalare e chi di difendere, nascondendosi nel suo cono d’ombra.  Al numero civico 202 non c’è più Mamma Felicia ad aspettare tutti con un garofano rosso per ciascuno. Ma la giornata è dedicata anche a lei, come si vede dal manifesto dell’evento e dagli slogan dei manifestanti. E’ un riconoscimento a una donna straordinaria, che, con semplicità e determinazione, è arrivata in fondo a una battaglia giudiziaria e culturale, per avere giustizia e per affermare lo straordinario valore di un figlio che anche lo Stato voleva uccidere una seconda volta con i tentativi di depistaggio delle indagini. 
 
La casa è aperta, chiunque può entrare, perdersi tra le centinaia di foto che tappezzano le pareti, leggere qualche poesia appesa qui e lì, sentirsi accolto. Proprio lì davanti uno stand propone delle pubblicazioni sulla figura di Peppino e di Felicia, biografie, poster e cartoline; molti curiosano, qualcuno compra.
 
Appena dopo i famosi cento passi c’è la casa di Tano Badalamenti, sequestrata dallo Stato e della quale l’Associazione culturale Peppino Impastato ha chiesto l’assegnazione per installarvi un archivio di tutto il materiale che riguarda Peppino e una biblioteca pubblica, che contenga tra gli altri alcuni testi di studio del fenomeno mafioso, di problemi del meridione e di documentazione delle lotte sociali. Un nuovo luogo di confronto e di crescita culturale, e si spera non l’ultimo. Tra le richieste della famiglia, degli amici e del Centro Impastato c’è, infatti, quella di trasformare anche il casolare in cui Peppino fu ucciso in un luogo di memoria e di lavoro perché la lotta alla mafia possa non spegnersi mai.

Antonia Cosentino

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