Ortoleva: «La web-radio? Appartiene alla universitas»

Quando parliamo di radio universitarie, esaltandone le potenzialità in senso creativo, non c’è una contraddizione? L’appartenenza di una radio o di una TV all’istituzione universitaria comporta infatti una certa dose di ufficialità. Non crede che essere “la voce dell’ateneo” possa condizionare il rapporto che i media universitari stabiliscono col proprio pubblico?

La radio universitaria può essere percepita come voce istituzionale di un ente e come strumento di relazioni esterne, un’appendice dell’ufficio comunicazione. E’ un rischio che esiste anche per altri mezzi d’informazione: dalle riviste in carta patinata ai primi esperimenti di televisioni d’ateneo. Ciò non toglie nulla alle qualità professionali o amatoriali di chi ci lavora, ma si tratta di un modello che condiziona fortemente il rapporto col pubblico e che potrebbe essere mortificante, sia dal punto di vista della credibilità, sia dal punto di vista del carattere dialogante. In senso metaforico ogni radio è sempre la voce di qualcuno. Ad esempio RadioRai è abbastanza ufficiosa, una voce delle istituzioni (magari in qualche momento potrà esserlo in modo meno evidente ma lo è). Con la nascita delle radio universitarie dobbiamo porci il problema: “Di chi devono essere voce?”.

Ci sono altre possibilità?

C’è chi parla di “radio degli studenti”. Si tratta di un’espressione tipica del mondo anglosassone. Io non la amo particolarmente perché – come osservava oggi Antonio Caprarica – gli studenti poi se ne vanno, finito il corso di studi, e si ricomincia daccapo. La “radio degli studenti” rischia perciò di essere l’opposto dei media istituzionali: una voce goliardica nel senso originario del termine. Oppure ci potrebbe essere la “radio dei docenti”, come in parte lo è già la nostra, all’università di Torino (credo di essere stato il primo professore che ha trasmesso in broadcasting un corso). Ma penso che neanche questa sia la soluzione migliore. La cosa più importante mi pare stabilire che una radio universitaria non deve essere la voce del rettore. Le radio universitarie devono avere una funzione di ‘radio universitas’. Uso il latino per significare la piena assunzione di un modello di università intesa come luogo di scambio, di discussione anche aspra, ma finalizzata a un obiettivo comune: l’avanzamento della conoscenza.

Nel dibattito al FRU 2008 di Catania è emersa la solita contrapposizione tra “vecchi” e “giovani”. I primi sembrano decisi a ribadire un modello più tradizionale di radio, mentre i secondi insistono sul rovesciamento dei canoni generato dalla presenza sul web. Quale sarà in realtà la radio del futuro?

Il mezzo radiofonico ha ancora una sua forte rilevanza, non solo perché è un mezzo mobile; anche quando si limita ad essere web radio continua ad accompagnare la vita delle persone. Inoltre è un mezzo che sta continuando a vivere un livello di sperimentalità che la televisione nel senso classico del termine non sta effettuando. Ho l’impressione che si sta andando verso una molteplicità di forme radiofoniche in senso lato. Oggi intendiamo per radio non più quella di Marconi: la trasmissione via etere non è più indispensabile e neppure quella basata soltanto sul palinsesto o sulla trasmissione in diretta. Ormai parliamo di “radio” per indicare una forma di comunicazione che usa canali molteplici (ma potrà avere anche un suo palinsesto ed essere abbinata alla mobilità del transistor e della radio in automobile). La radio rimane tuttavia determinata dalla sua leggerezza, cioè il fatto che continua ad essere un medium meno impegnativo a livello di produzione e di consumo, e dal carattere sonoro, che segna la sua unicità. Si tratta di aspetti che rimangono caratterizzanti del mezzo radiofonico in tutte le sue forme e sarà questa, necessariamente, la radio del futuro.

Considerando il crescente melting pot, ha ancora senso distinguere tra radio e web-TV?

Da un punto di vista tecnologico molte basi di questa distinzione sono saltate. Da un punto di vista culturale, il concetto di radio aiuta ad orientarci nel mondo dei media. Da questa prospettiva dire che “è tutto online” e perciò non c’è più la radio significa sopprimere un riferimento culturale fondamentale. Oggi i media non sono più, come erano in passato, specifiche tecnologie ma loci communes, luoghi di riferimento culturale e mediale. In questo senso si può parlare ancora di radio e così sarà per molto tempo.

Le scuole di giornalismo dovrebbero preparare diversamente i giornalisti radiofonici di domani?

Il concetto di giornalismo è in trasformazione profondissima. Non è la carta stampata a essere in crisi, ma la domanda pubblica di notizie. La notizia non è più l’unità fondamentale nella vita delle persone e quindi probabilmente la professione di giornalista sarà in prospettiva di intermediario tra la gente e il mondo. E il concetto base non sarà più “cosa è successo oggi” ma “qual è il mondo nel quale ti muovi”. Da questo punto di vista il giornalismo radiofonico, così come gli altri generi, dovrà cambiare moltissimo. E’ un mutamento così radicale che credo passeranno almeno tre generazioni.

Come possono decollare a livello nazionale le radio universitarie per non correre il rischio di restare soltanto laboratori sperimentali o esperienze dilettantistiche?

Secondo me per ora stanno già andando benino. Mi preoccupa un po’ chi dice di non avere abbastanza spazio. A me sembra che ne abbiano a sufficienza. Non credo che ci sia il bisogno di essere ascoltati da tutta la popolazione italiana. Perché altrimenti – come diceva Sergio Valzania – il rischio è che si mettano a imitare le altre radio. Credo che le radio universitarie non devono diventare “importanti” troppo presto.

Già. Ma come devono fare per crescere?

Come tutti: stando nell’ambiente e arrangiandosi. Sostanzialmente consiglio una strategia darwiniana, una selezione naturale: sopravvivere e battersi per sopravvivere, cercando nell’ambiente le risorse che servono.

Una collaborazione tra università e radio pubblica le pare una soluzione utile?

A patto di non esagerare. La radio pubblica deve dare voce a tantissime istanze del Paese, molte delle quali non hanno nemmeno una radio come ce l’ha l’università. Quindi, se la radio pubblica dà un po’ di voce va bene. Ma ha anche tante altre cose da fare.

Alice Avila

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