Le accuse sono associazione mafiosa e traffico di stupefacenti, ma nell’operazione Leonidi bis c’è qualcosa di più di qualche arresto. L’operazione che stamattina a Catania ha sgominato la componente del clan Santapaola-Ercolano che operava nel quartiere Villaggio Sant’Agata ha fatto emergere alcune figure di spicco e quello che sembra il conflitto generazionale tra «la vecchia mafia – quella dei grandi – e quella giovane», scrive la procura. Una mafia «irruenta ed avvezza all’esibizione di status symbol sui social e alla vita gaudente». Una spregiudicatezza che – secondo la procura – sarebbe potuta sfociare in un omicidio, impedito dall’intervento della magistratura e dei carabinieri di Catania, che lo scorso dicembre hanno bloccato l’ala armata del gruppo, fermando nove persone che stavano progettando l’uccisione di quello che viene indicato come un esponente del clan rivale dei Cappello-Bonaccorsi, Pietro Gagliano.
Oltre all’arsenale sequestrato nel corso delle indagini, durate 18 mesi, dall’indagine Leonida bis emergono tre nomi su tutti: Salvatore Battaglia, Salvatore Gurreri e Giuseppe Pistone (tutti e tre già in carcere per indagini precedenti a questa). Battaglia è un volto storico del gruppo del Villaggio Sant’Agata, così come il fratello Santo. Battaglia – già condannato in via definitiva per associazione mafiosa e per omicidio – sarebbe risultato essere punto di riferimento attuale per il gruppo mafioso e persona capace di fornire indicazioni alle persone affiliate a proposito della gestione delle dinamiche associative: tutto questo grazie a dei cellulari che avrebbe tenuto in carcere. Durante la sua detenzione Battaglia avrebbe ricevuto numerose informazioni dalle persone affiliate al clan che non erano detenute, così da essere sempre aggiornato sulle dinamiche in corso e in grado di dare direttive dal carcere su molti temi: dagli incontri da svolgere con persone affiliate o soggetti di interesse associativo alla gestione dei guadagni illeciti del gruppo del Villaggio Sant’Agata, fino ai comportamenti – anche violenti – da tenere in alcune situazioni.
Salvatore Gurreri – inteso Turi ‘u puffu – sarebbe un esponente della cosiddetta vecchia generazione di affiliati. Il fatto di essere detenuto in un carcere del nord Italia insieme ad altre persone affiliate al clan gli avrebbe dato un ruolo preziosissimo, perché avrebbe avuto la possibilità di ricevere e veicolare direttamente le informazioni tra i sodali liberi e le persone detenute con lui, oltre a pretendere erogazioni di denaro. Anche Gurreri avrebbe usato dei cellulari dal carcere. L’indagine avrebbe permesso di «accertare l’indissolubilità del legame di appartenenza all’associazione mafiosa dei sodali detenuti», scrive la procura di Catania. Si tratterebbe di «un legame di reciproca corrispondenza», dimostrabile da due elementi. Da una parte i sodali detenuti del clan sarebbero risultati capaci di essere aggiornati «sulle dinamiche della vita mafiosa all’esterno del carcere», anche per «fornire consigli o direttive, dove fosse necessario», dall’altra sarebbe stato accertato che il clan versava alle loro famiglie il cosiddetto stipendio, somme di denaro per mantenere in carcere gli affiliati detenuti. Somme che verrebbero dagli affari illeciti del gruppo mafioso e che il clan considerava come «costi fissi», inevitabili. Tutto questo «a conferma e a tutela di un vincolo di appartenenza».
E poi c’è Giuseppe Pistone. La procura di Catania lo descrive come «disposto a tutto pur di
compiere la sua scalata nell’olimpo criminale della malavita etnea». Pistone avrebbe iniziato la sua carriera come autista di Andrea Nizza, membro apicale del gruppo Nizza di Librino (Librino è un quartiere di Catania, ndr). Dopo l’arresto di Nizza, avvenuto a gennaio 2017, Pistone si sarebbe dedicato soprattutto allo spaccio di droga nell’interesse e per conto del gruppo Nizza, «con l’obiettivo – scrive la procura di Catania – di riportare il citato gruppo agli antichi splendori, pur in assenza della forza militare di un tempo». Secondo le indagini, Pistone sarebbe molto di più di uno spacciatore da strada, ma avrebbe avuto capacità e poteri organizzativi anche come gestore di una cosiddetta piazza volante, cioè una piazza di spaccio che ruota attorno alla gestione di un’utenza telefonica; questa sarebbe stata contattata tramite WhatsApp e Telegram dalle persone che volevano acquistare droga, poi si sarebbe attivato il servizio di consegna degli stupefacenti, di cui si sarebbero occupate persone appositamente incaricate.
L’indagine coordinata dalla Direzione distrettuale antimafia (Dda) di Catania ha consentito di apprendere «le interazioni tra vari gruppi della famiglia di Cosa nostra etnea, nonché tra detti gruppi e Clan antagonisti, rivelando in più momenti gravi fibrillazioni caratterizzate anche da una ‘corsa alle armi‘. Nel corso dell’indagine – che, come detto, è durata 18 mesi – i carabinieri hanno sequestrato cinque fucili da caccia – di cui tre con le canne mozzate – una mitragliatrice cecoslovacca, due pistole e oltre 350 munizioni di vario calibro, oltre a un chilo di cocaina, sei chili di hashish, un giubbotto antiproiettile e un lampeggiante blu per auto.
In carcere
1. Salvatore Battaglia (1966) – già in carcere
2. Giuseppe Caruso (1986) – già in carcere
3. Gabriele Gioacchino Cigna (2004)
4. Santo Di Bella (1992)
5. Carmelo Di Silvestro (1977) – già in carcere
6. Francesco Pio Giuseppe Di Stefano (2000) – già in carcere
7. Salvatore Gurreri (1973) – già in carcere
8. Alessandro Simone Ingo (1996)
9. Giuseppe Pistone (1987) – già in carcere
10. Santo Roggio (1976)
11. Michele Spampinato (1999)
Ai domiciliari
12. Giulia Ilenia Catanzaro (2003)
13. Marco Natale Tosto (2004)
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