Mulino Santa Lucia, parola ai testi della difesa «Possibile demolire e ricostruire l’edificio»

A guardare il confronto fotografico realizzato recentemente dal Gruppo Azione Risveglio tra il vecchio mulino Santa Lucia e la nuova struttura sotto sequestro, è facile riconoscere la vistosa differenza della sagoma. Ieri, alla ripresa del processo sull’ex mulino di proprietà dell’imprenditore Francesco Bellavista Caltagirone si è parlato anche di questo: del presunto aumento di volumetria rispetto all’edificio preesistente e del cambio di destinazione d’uso.

Gli imputati per abuso d’ufficio e lottizzazione abusiva sono cinque: Giovanni Cervi, amministratore della Grand Hotel Bellini, Maurizio Pennisi, amministratore della Italgestioni Edilizie, Giovanni Beneduci, amministratore dell’Acqua Marcia Holding, Vito Padalino, ex dirigente della direzione Urbanistica e Gestione del territorio, e l’avvocato Mario Arena, componente della Commissione edilizia e del Collegio della difesa.

«Il mulino Santa Lucia svolgeva sia un’attività industriale che commerciale, nel passaggio a centro direzionale non c’è stato un cambio di destinazione d’uso, perché entrambe le funzioni rientrano nella grande categoria delle attività produttive». Così l’ingegnere Bruno Maccarrone, uno dei due testi chiamati in aula dal collegio di difesa, ha risposto alle domande del pubblico ministero Andrea Ursino in merito alla trasformazione dell’immobile da opificio a centro direzionale. La storia della destinazione d’uso della zona a ridosso di piazza Borsellino parte da lontano. Dall’approvazione del piano regolatore generale della città, ormai vecchio più di 40 anni. Nella planimetria del piano regolatore del 1969, ricorda il pubblico ministero, sull’area dove ora sorge l’immobile sotto sequestro era prevista una strada. Tuttavia il progetto iniziale fu immediatamente stoppato dalla Regione, che nel decreto di approvazione del piano, come sottolinea Maccarrone, precisava che «era da disattendere la realizzazione di strade nelle zone del centro storico, perché si sarebbe trattato di un vero e proprio sventramento, quindi soggetto non a un piano regolatore, bensì a un piano particolareggiato o di recupero». Tuttavia il piano particolareggiato non è stato mai realizzato e, alla scadenza dei termini previsti dalla legge, cioè tre anni, i vincoli sull’area sono decaduti. «A questo punto – conclude l’ingegnere – sull’edificio preesistente è possibile intervenire con una ristrutturazione urbanistica».

Cosa si intenda e quali sono i limiti di una ristrutturazione urbanistica in questo contesto lo spiega il secondo teste della difesa, Luigi Passanisi, ex assessore all’Urbanistica nella giunta Scapagnini ed ex presidente della commissione di valutazione del Comune di Catania. «In questo caso era lecito anche demolire e ricostruire per intero l’edificio con una semplice denuncia di inizio attività – sottolinea Passanisi – ed era possibile anche cambiarne la sagoma e la volumetria ma solo dopo il rilascio della concessione edilizia da parte del Comune».

La volumetria, appunto, è stato l’ultimo nodo affrontato nell’udienza di ieri. Il consulente della difesa, l’ingegnere Carmelo La Piana, ha criticato la perizia presentata dalla procura che parla di un aumento di 6mila metri cubi dell’attuale edificio di via Cristoforo Colombo rispetto alla struttura preesistente. Al centro del contendere un grande punto luce a forma circolare realizzato all’interno dell’ex mulino. Un «vuoto» a forma di cilindro dal diametro di 17 metri, coperto da una cupola in plexiglass e aperto ai lati, dentro il quale è stato realizzato un corpo scale con ascensore. Per l’accusa questo spazio deve essere conteggiato nella volumetria totale. Di diverso avviso il consulente della difesa. «Si tratta di una struttura aperta – spiega La Piana – sarebbe come calcolare il volume occupato da un gazebo». L’audizione dei testi riprenderà il 24 maggio, mentre prima delle vacanze estive è prevista la requisitoria del pubblico ministero.

[Foto di Gar]

Salvo Catalano

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