Militare vittima non riconosciuta di uranio impoverito Motta: «Ci mandavano in missione in stile boy scout»

«Ma sono coglioni combinati così con 42 gradi?». Sono in molti i militari italiani che lo hanno pensato, guardando i colleghi americani attrezzati di bombole e mascherine sul viso. «A noi ci mandavano in missione in stile boy scout, con le canottierine e i pantaloncini color cachi. Solo ora capisco che i coglioni eravamo noi». È amara la considerazione che fa Lorenzo Motta, ex militare della marina militare congedato nel 2008 perché affetto dal linfoma di Hodgkin. Patologia contratta a causa dell’esposizione all’uranio impoverito, a nanoparticelle di metalli pesanti che da quattordici anni ormai circolano nel suo sangue e per la somministrazione di vaccini senza criterio. Eppure, già nel 1992 la Nato aveva diramato delle normative ben precise in merito a queste tematiche, che però l’Italia ha ignorato, non informando i soldati che mandava in missione all’estero. La storia di Motta inizia quando lui ha appena 21 anni. Dopo il corso di specializzazione, viene destinato sulla nave Scirocco a La Spezia, un’unità antisommergibile e missilistica, una delle unità più operative della flotta nei primi anni Duemila.

Partecipa anche al corso ordinario incursori del Consubin, una forza speciale della marina, che abbandona poco dopo. Per potervi entrare, però, si sottopone a controlli medici approfonditi, «dal capello fino all’unghio del piede», all’ospedale militare di La Spezia. «Ero sano come un pesce». Ed è in queste condizioni che ritorna a bordo della Scirocco, con la quale intraprende le prime missioni all’estero, circa otto in totale dal 2002 al 2007. Sono campagne umanitarie, contrasto alla pirateria e al terrorismo, e missioni per la pacificazione del territorio afghano. Fino a luglio 2005, quando la sua vita cambia per sempre: «Mentre mi stavo facendo la barba mi sono accorto di un gonfiore nella parte destra del collo». La prima diagnosi ipotizza un ascesso dentale. La terapia, però, non ha alcun effetto. Uno dei radiologi all’epoca più in vista della città gli chiede se abbia degli animali esotici in casa. «Sembra una barzelletta, avevo appena preso un pappagallo». Ma il volatile c’entra poco e il suo collo continua a gonfiare. Seguono altre diagnosi inesatte, come quella di una tubercolosi linfonoidale o quella di Hiv. «Nessuno riusciva a capire cosa avessi – racconta Motta – Fino a quando non mi sottopongo a una biopsia».

L’esito arriva il 13 dicembre: è linfoma di Hodgkin, patologia che attacca il sistema linfatico. Si sottopone a otto cicli di chemio e a 35 sedute di radioterapia. Nel frattempo, arriva anche una lettere della marina militare: se la malattia si fosse protratta per altri tre mesi lo stipendio sarebbe stato ridotto del 50 per cento, se si fosse protratta per ulteriori tre mesi si sarebbe ridotto a zero. «Sono stato lasciato senza soldi, sfrattato da casa, con una figlia appena nata. Mi sono messo a fare il lavapiatti per mantenere la famiglia, ma quei soldi non bastavano lo stesso – spiega – Lo Stato non ti agevola, se sei in difficoltà viene per buttarti la terra di sopra». Fin qui potrebbe anche essere una storia come tante, una parte che lui stesso definisce «pre-pensiero», perché ancora inconsapevole di quello che stava già accadendo.

«Tu hai fatto missioni all’estero? Sei sicuro che sia stato il destino a riservarti questo linfoma?». Cambia tutto, per Motta, a queste domande dell’ammiraglio Falco Accame, presidente dell’associazione Ana-Vafaf, con la quale si occupa delle conseguenze dell’uso di armamenti contenenti uranio impoverito. «Mi si è aperto un mondo». Comincia a fare ricerche e approfodimenti. Scopre il centro Nanodiagnostyc di Modena, che analizza reperti bioptici dei militari e a cui nel 2011 manda i propri campioni. Dentro il suo corpo vengono ritrovati sedici metalli diversi, dall’alluminio al ferro al nichel, c’è persino l’oro. Tutte formazioni «compatibili con quelle delle esplosioni». Prima di questa scoperta, però, chiede la dipendenza da causa di servizio e la definizione di vittima del dovere, due benefici riconosciuti da distinti decreti del Presidente della Repubblica. Richiesta inoltrata al ministero della Difesa e trasmessa al Comitato di verifica, organo consultivo del ministero dell’Economia e delle finanze.

Si sottopone quindi a due visite specalistiche, una a distanza di soli tre mesi dall’altra, la prima a Taranto, dove gli riconoscono il tumore ma una percentuale di invalidità dello zero per cento, la seconda invece ad Augusta, dove lo congedano ufficialmente spostandolo al civile. Transito, però, che per legge presuppone il riconoscimento di una percentuale, seppur minima, d’invalidità. «Augusta mi sposta, ma Taranto mi aveva dato zero. Come si spiega?». Mentre, nel 2014 l’Inps gli riconosce il 70 per cento di invalidità. L’esito alla sua richiesta, intanto, arriva solo dopo cinque anni: «La sua patologia non è dipendente da cause di servizio». È il primo diniego dello Stato. L’unica alternativa è ricorrere al Tar Lazio, che ammette un vizio di forma nell’esito del Ministero e «impone all’amministrazione un onere motivazionale ed istruttorio particolarmente stringente». La sentenza di primo grado viene appellata con richiesta di sospensione. Il Consiglio di Stato invita a sua volta i Ministeri a rimettere un parere di accoglimento ben motivato: «La delicatezza della questione in sé e dei vari interessi implicati ne impone l’esposizione con dovizia di particolari, ma non determina di per sé solo il riconoscimento d’alcunché dell’appellato».

Le amministrazioni, per tutta risposta, negano di nuovo, secondo loro non ci sono evidenze scientifiche, ignorando quindi il rischio probabilistico e i numerosi altri casi identici a quello di Motta, giunti a un esito differente. Entra in gioco un commissario ad acta e la nomina di un Consulente tecnico d’ufficio, che si esprimerà a breve sulla questione. «Intanto, spulciando tutte le memorie difensive del ministero della Difesa leggo che hanno dichiarato il falso in sede di giudizio, scrivono che non ho mai maneggiato munizionamenti pesanti e che non ho mai usato armi – spiega Motta – Ma posso dimostrare che non è così e rendere conto dei lanci missilistici effettuati dalla Scirocco. Come ci sono arrivato io, anche il ministero era ed è nelle condizioni di poterlo appurare. Bugie a carico mio. Loro scrivono e loro negano». Nel frattempo due sentenze, quella del Tar Lazio e del Tar Piemonte, parlano di 75 mila casi come il suo. Tuttavia, guardando indietro, Motta rifarebbe le stesse scelte: «Mi hanno tolto la cosa che amavo di più, la marina militare, e poi mi hanno trattato come un delinquente. Potessi tornare indietro, però, rifarei di nuovo tutto».

Silvia Buffa

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