Mafia e aziende alleate anti-crisi Il caso dei centri commerciali

Da sempre si parla di infiltrazione delle mafie nell’economia legale, ma negli ultimi anni è in atto il percorso inverso, per cui imprenditori insieme a politici, professionisti e tecnici entrano in rapporto di complicità e collusione con la criminalità organizzata per ricavare vantaggi di competitività nel mercato. È quanto emerge dalla ricerca della Fondazione Res sulle relazioni crescenti tra mafie ed economie locali i cui risultati, raccolti nel volume Alleanze nell’ombra. Mafie ed economia in Sicilia e nel Mezzogiorno edito da Donzelli, verranno presentati oggi alle 16 nell’aula magna della facoltà di Scienze Politiche di Catania.

Tra gli otto casi di studio presi in esame da 15 ricercatori nelle regioni Sicilia, Calabria e Campania, due sono riconducibili all’area di Catania e della Sicilia orientale. Ne abbiamo parlato con il curatore del volume, il professore di sociologia generale all’Università di Torino Rocco Sciarrone.

Generalmente si parla di infiltrazione della mafia nell’economia legale, ma dalla vostra ricerca emerge piuttosto il percorso inverso. Come funziona?
«Ormai è diventato riduttivo parlare di infiltrazione. Meglio discutere di compenetrazione. A volte la figura centrale è quella dell’imprenditore che sfrutta il legame mafioso per arrivare al successo. Specialmente in un periodo di crisi come quello che stiamo attraversando, avere la complicità criminale può davvero fare la differenza tra essere espulsi o continuare a stare sul mercato. Così diventa difficile distinguere il confine non solo tra lecito e illecito, ma anche tra le imprese buone e quelle cattive. È quella che noi chiamiamo area grigia, ma che ha tante sfumature. La mafia, infatti, c’è, ma è solo una parte del problema. Da sempre crea relazioni e bisogna quindi studiarla in connessione con gli interessi e le azioni di altri attori sociali. Non solo illegali per definizione come i mafiosi, appunto, ma anche attori formalmente legali che non disdegnano di avere alleati criminali».

Quali sono gli effetti di questa compenetrazione?
«Gli effetti sono devastanti sul lungo periodo, perché si distruggono le proprietà economiche e si deformano i rapporti di mercato. C’è poi un effetto difficile da misurare e cioè lo scoraggiamento dell’attività imprenditoriale a priori, che così diventa non appetibile per i giovani. L’imprenditore è colui che decide di rischiare e di mettersi in gioco, ma sapere che in una determinata area questo rischio è connotato in modo diverso scoraggia la formazione di nuove imprese e deprime le opportunità di sviluppo. Si parla spesso di carenza di risorse utili alla crescita della nostra economia. In realtà il problema è che le risorse sono nelle mani sbagliate. È come se si fronteggiassero due Italie, una che cerca di resistere e di diventare competitiva nei mercati globali e l’altra che cerca l’adattamento, una resistenza al ribasso fino ad arrivare all’accordo esplicito con soggetti criminali. Da come finirà questa lotta dipenderà lo sviluppo del nostro Paese».

Cosa favorisce questo meccanismo di compenetrazione delle mafie e delle economie legali?
«Si tratta di alcuni fattori di contesto che, contrariamente a quello che si pensa, non sono caratterizzati da arretratezza, ma da un relativo dinamismo economico come quello del settore della grande distribuzione a Catania. La penetrazione viene favorita dal radicamento delle organizzazioni criminali nel territorio, con le loro risorse tipiche: la violenza e il capitale sociale. Ma contribuisce anche quello che noi chiamiamo l’abbassamento dei costi morali da parte degli imprenditori o dei liberi professionisti, per esempio, che non si fanno scrupoli di arrivare al successo tramite il rapporto con la mafia. Successo che viene addirittura riconosciuto dalla società».

Nella vostra ricerca avete esaminato due casi che riguardano i settori della grande distribuzione commerciale e dei trasporti nell’area di Catania e della Sicilia orientale. Cosa è emerso?
«In questi due settori operano e sono in continua espansione i comitati di affari, il terreno d’incontro tra i mafiosi e altri soggetti come politici, imprenditori, tecnici e professionisti. Com’è noto, nel territorio di Catania c’è un rapporto tra la presenza di grossi centri commerciali e la popolazione che è il più alto d’Europa. È un settore particolarmente vulnerabile alla penetrazione di interessi criminali e terreno fertile per la compenetrazione. E non è detto che tra la mafia e l’imprenditorialità collusa sia la prima a ricavare i maggiori vantaggi. I mafiosi ci guadagnano, certo, ma non sono sempre necessariamente in una posizione di forza e non sempre detengono la regia degli affari».

La vostra analisi demolisce anche le immagini veicolate negli ultimi tempi dai mass media della mafia come spa e dei mafiosi come abili imprenditori. Perché?
«Le cose sono ancora una volta più complicate. Non c’è una mafia spa. Le cifre che circolano sul suo presunto fatturato hanno sicuramente una eco mediatica molto alta, ma anche alcuni dei magistrati che abbiamo intervistato ammettono che questi dati non hanno fondamento e servono solo a tenere alto l’allarme sociale. Queste stime alla lunga possono essere fuorvianti, perché fanno sì che ci sfuggano gli aspetti più complicati del problema. È vero inoltre che i figli dei mafiosi oggi studiano ma, se andiamo ad analizzare le loro attività, non riscontriamo competenze imprenditoriali di elevata qualità, abilità di tipo manageriale, competenze finanziarie o tecniche. Sono sempre impegnati in settori a basso livello tecnologico e facili da avviare. Per i loro investimenti dunque i mafiosi hanno bisogno di soggetti esterni dotati di vere competenze. Per questo avviene lo scambio e la saldatura tra il mondo criminale e quello legale o formalmente legale. E i soggetti esterni vogliono la loro parte».

Esistono strategie di contrasto?
«Siamo arrivati ad alti livelli di efficienza nel contrasto alla mafia militare, ma siamo meno attrezzati per colpire le aree grigie e le collusioni. Non abbiamo ancora efficaci strumenti di prevenzione, investigazione e sanzionamento. Sarebbe importante per esempio introdurre il reato di autoriciclaggio. Nel nostro Paese, infatti, viene punito chi ha ottenuto del denaro sporco. Ma la pulitura del denaro, se fatta dallo stesso soggetto, non viene sanzionata. Bisognerebbe rendere operative non solo le cosiddette black list delle aziende colluse, ma anche le white list per dare incentivi a quelle che operano nella legalità. Perché lavorare legalmente non può essere un costo. Ad essere sconveniente deve diventare piuttosto l’accordo con il mafioso. Purtroppo però questo ancora non avviene e ovviamente molte di queste proposte richiedono delle scelte politiche».

[Foto di allensima]

Agata Pasqualino

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